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Il passato e il futuro del flamenco – Intervista a Vicente Amigo

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Vicente Amigo (foto di Guerini)

(di Francesco Rampichini) – Risale a tempi recenti, alla fine del 2010, l’inserimento del Flamenco da parte dell’Unesco nella lista rappresentativa del «Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità». E dopo l’improvvisa scomparsa circa un anno fa di Paco de Lucìa, probabilmente il più importante chitarrista flamenco di tutti i tempi, il gravoso compito e l’onore di raccoglierne l’eredità spetta forse proprio a Vicente Amigo, ex enfant prodige giunto oggi ai suoi venticinque anni di carriera artistica, celebrati con un tour che attraversa l’Italia con cinque date in questo mese di marzo. Si dice del resto che lo stesso de Lucìa abbia considerato Amigo come il suo più probabile successore. E Vicente, già nel suo secondo disco Vivencias imaginadas del 1995, coronò il sogno di poter invitare Paco come ospite nella propria composizione “Querido Metheny”, omaggio a un altro dei suoi modelli stilistici. Da parte sua Pat Metheny, nella sezione “Question and Answer” del suo sito, dichiara: «Io amo Vicente Amigo. Tutto quello che fa, il suo tocco, il suo suono, le sue idee, tutto mi mette fuori combattimento. È realmente uno dei miei preferiti. Quel brano sul suo album è stato uno dei migliori complimenti che abbia mai ricevuto.» Quello che è certo, è che Amigo ha ripreso nel tempo, e continua tuttora, quell’opera intrapresa da de Lucìa che consiste nel magnificare la tradizione storica del flamenco e, al tempo stesso, rinnovarla attraverso incursioni in altri linguaggi musicali, tra i quali il jazz. Nel suo settimo e ultimo disco Tierra del 2013, in particolare, ha affrontato un pionieristico dialogo tra il suo flamenco e la musica di stile celtico, chiamando al suo fianco Michael McGoldrick ai flauti e alle cornamuse, John McCusker al fiddle e Danny Cummings alla batteria e percussioni, tutti provenienti dalla band di Mark Knopfler, insieme a Ewan Vernal al basso e Donald Shaw alla fisarmonica, membri del gruppo folk gaelico dei Capercaillie. (a.c.)

Giusto vent’anni fa, per l’uscita di Vivencias imaginadas, mi dicesti [in un’intervista per Chitarre, giugno 1996] che ti sarebbe piaciuto approfondire il tuo rapporto con il jazz, scoprire più cose su come funziona e suonare con un chitarrista jazz: fra le tante collaborazioni di questi anni, qualcuna in particolare ha influenzato o ispirato il tuo modo di suonare?
In realtà anche l’esperienza della registrazione del mio ultimo disco, Tierra, è stata magica. I musicisti con cui ho suonato non sono dei musicisti di jazz, però sono degli incredibili musicisti. È stata sorprendente la facilità con la quale ci siamo capiti musicalmente, e con quale rapidità venivano fuori i brani. Questa esperienza non ha cambiato il mio modo di suonare, pero sì, ha aperto tante nuove possibilità e idee per il mio modo di comporre.

Se è vero che c’è un tempo per ogni cosa, quale fra i palos si avvicina di più oggi al tuo sentimento – rumba, bulerías, fandango o altro – e perché?
Quello che è interessante, secondo me, è che ogni palo richiede che io mi mostri come sono. È questa la sfida. Mi piace la bulerías, però mi piace anche suonare per la soleà. Sono cose molto differenti, ma in ogni stile cerchi di esprimerti come sei.

Fra le prerogative del tuo stile c’è una cantabilità tematica molto spiccata. Si direbbe che tu abbia sempre in mente el cante, anche nei brani strumentali. Qual è il tuo modo di comporre?
Viene fuori in maniera naturale. Ma, naturalmente, devi lavorare per conseguire questo risultato. Devi cercarlo. Quando trovi qualcosa è perché stai cercando. Perché stai sempre a pensare in forma di melodia, in musica. Anche quando non hai la chitarra tra le mani, la musica ce l’hai in testa. Per questo ti può capitare di trovare una nuova melodia in mezzo alla strada, camminando o andando in bici. In qualsiasi momento puoi incontrare qualcosa.

E questo tuo modo di comporre è cambiato rispetto agli inizi, anche considerando i mutamenti che la tua generazione e la precedente hanno innestato nelle radici del flamenco?
No, credo di no. Mi sono sentito sempre libero di cercare la mia musica ed esprimere quello che il mio cuore vuole dire.

Foto di Federico Solari
Foto di Federico Solari

Credi che i metodi didattici per chitarra flamenca siano utili per imparare?
Ci sono molti modi di imparare. Ma tutti passano attraverso molte ore di studio. Forse per qualcuno vanno bene i metodi didattici, mentre altri hanno bisogno di un buon maestro e altri ancora imparano da soli a casa; però, quale che sia il metodo, l’importante è il tempo che gli dedichi.

Hai mai pensato di insegnare?
Si, l’ho pensato. Forse lo farò in un futuro. Ho molto rispetto per i chitarristi e per la libertà di cui hanno bisogno per trovare la propria espressione. Questa è qualcosa di unico che ognuno deve avere e che è fondamentale trovare. Mi fa paura l’idea che, insegnando, io possa allontanare l’allievo da questa espressione. Ho sempre pensato che mi piacerebbe di più insegnare ai bambini, ai bambini piccoli che non hanno ancora toccato una chitarra. Per dar loro un paio di consigli, ma soprattutto per convincerli che devono trovare la propria pulsazione, il proprio agio e, più di ogni altra cosa, la propria espressione.

Com’è stato il tuo rapporto con Manolo Sanlúcar, uno dei tuoi maestri?
Con Manolo ho imparato il rispetto che la chitarra merita, così come ho appreso ad affrontare il timore che incute la chitarra flamenca. In certe occasioni è doloroso, perché non tutti i giorni ti senti la forza necessaria per suonare, ma è quello che cerco giorno dopo giorno. Per quanto sia doloroso, lo cerco. Quello di cui mi alimento è proprio il sentimento che porto dentro di me. Questo è quello che mi fa funzionare o meno. Io non suono la chitarra per ottenere un applauso.

Foto di Guerini
Foto di Guerini

Perché secondo te proprio la chitarra è diventata lo strumento principale del flamenco?
Hombre, credo che sia uno strumento incredibile per trasmettere emozioni. È qualcosa che arriva a tutte le persone del mondo. Non ha barriere di idiomi o culture, perché quello che esprime sono le emozioni umane.

Quali chitarre usi in concerto e che tipo e tensione di corde monti?
Da venticinque anni suono la mia chitarra costruita da Manuel Reyes, un liutaio di Córdoba, anche se l’hanno scorso ho collaborato con un liutaio messicano e ho suonato una sua chitarra in diversi concerti. Si chiama Francisco Navarro ed è un liutaio favoloso. Ho anche potuto dargli alcuni suggerimenti e sono molto contento del risultato. Le sue sono chitarre che suonano come le vecchie chitarre e hanno una risposta molto agevole. Come corde, normalmente uso delle D’Addario tensione media.

Qual è il brano di questo tour che ami di più, solo o con il gruppo?
La verità è che mi piacciono tutti, per diverse ragioni. Suppongo che il brano che mi piace di più sia quello che faccio quando salgo da solo sul palco a inizio concerto. Però, più che altro, è perché lì è quando finalmente comincio a rilassarmi. L’attesa per salire sul palco è eterna per me, e non la passo molto bene.

C’è una cosa in particolare che fai sempre prima di salire sul palco?
Di tutto! [ride] Mi siedo sempre in camerino per riscaldarmi, bevo un bicchierino di whisky scozzese, porto con me una croce che mi regalò mia madre e la bacio sempre prima di entrare in scena.

Una parola sui musicisti che ti accompagnano nel tour?
Mi accompagnano musicisti che lavorano con me da molto tempo: Paquito González alle percussioni, Rafael de Utrera al cante e Añil Fernandez alla seconda chitarra; poi c’è anche Dani Navarro, un grandissimo bailador di Córdoba. Oramai c’è un grande feeling tra di noi, sono tanti anni che stiamo insieme e ci sentiamo molto a nostro agio sul palco. Questo è fondamentale.

Dai tempi di Poeta [1997], il tuo lavoro con il “Concierto flamenco para un marinero en tierra” su poesie di Rafael Alberti, orchestrato da Leo Brouwer, hai più avuto contatti con il maestro cubano? Il vostro incontro ha lasciato qualche traccia nella tua musica?
Da poco ho eseguito quel concerto in Colombia. e c’era anche lui tra il pubblico. Ma, sfortunatamente, non ci siamo visti. È da tempo che non incontro Leo, ma conservo ricordi molto belli di quel lavoro insieme.

Conosci qualche chitarrista italiano con cui ti piacerebbe collaborare?
In realtà io ho sempre cercato un altro tipo di musicista con cui suonare insieme. Ho sempre pensato che è meglio collaborare con un musicista che suona un altro strumento: un piano, un violoncello, un flauto, un violino… Perché se si mettono insieme più chitarristi si comincia a correre troppo! [ride]

Foto di Guerini
Foto di Guerini

Pensi che il nostro mondo sempre più digitale abbia influenzato in qualche modo la musica ‘fatta a mano’, con strumenti tradizionali?
Io vedo molte cose positive nell’uso della tecnologia digitale, all’atto di comporre, o di registrare. Ma la verità è che ci sono meno maestri di quelli di una volta, e questo mi rende triste. In generale, penso che stia diventando sempre più difficile concentrarsi su un’arte manuale, e dedicarle il tempo necessario per diventare un maestro.

Non posso non chiederti qualcosa di Paco de Lucía. La sua scomparsa improvvisa ha lasciato tutti smarriti: qual è l’aspetto più importante della sua eredità musicale nel flamenco, e per te personalmente?
Hombre, Paco nel flamenco ha fatto tutto. Senza ombra di dubbio la chitarra flamenca sta dove sta grazie a lui. E lui ha influenzato tutta una generazione di chitarristi di flamenco. Per me personalmente è stata una perdita enorme, che mi ha procurato una ferita profonda. E sono certo che non guarirà mai. Devo imparare a conviverci, non mi resta altro da fare.

Paco mi disse che il flamenco non è la musica dei ‘gitani’, ma dell’Andalusia. Cos’è per te el duende e dov’è la sua fonte: in un luogo, in un tempo, in un popolo?
Il duende è la sicurezza in te stesso, è quella cosa che ti fa sentire libero sul palcoscenico. Ed è anche un momento, un regalo che ti arriva se la tua mente sta pensando in musica.

Si sa del tuo amore per il poeta greco Konstantinos Kavafis. Itaca, uno dei suoi testi più belli, finisce così: «Itaca ti ha dato il bel viaggio, / senza di lei mai ti saresti messo / sulla strada: che cos’altro ti aspetti? // E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. / Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso / già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.» Hai capito cosa Itaca vuole significare?
Per me Itaca è la ‘città delle idee’. A questo mi sono ispirato quando ho messo quel titolo al mio disco Ciudad de las ideas [2000].

Francesco Rampichini

Ringraziamo Federico Solari per la cortese assistenza prestata in occasione dell’intervista e per la sua interpretazione della lingua spagnola di Vicente Amigo.

PUBBLICATO

 

 

 

 

Chitarra Acustica, n.03/2015, pp. 22-25

 

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