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La voglia di tornare a quel tipo di canzoni con la chitarra – Intervista a Mario Castelnuovo

Castelnuovo_web(di Gabriele Longo) – Sono passati otto anni dalla sua ultima produzione discografica, Com’erano venute buone le ciliegie nella primavera del ’42. Mario Castelnuovo si ripresenta al suo pubblico con Musica per un incendio, in cui manifesta tutti i suoi stati d’animo, dai più cupi ai più allegri e ironici. Il cantautore di “Nina” e “Oceania” vorrebbe che questa sua ultima fatica diventasse la colonna sonora del presente, come antidoto all’appiattimento dell’epoca che stiamo vivendo: «L’Italia di oggi è un paese piuttosto… decaffeinato» afferma lo stesso cantautore. E proprio per questo Castelnuovo ha cercato di esprimere con queste dodici canzoni, viste come una musica per incendiare gli animi troppo sopiti, la voglia di riaccendere nella vita di tutti noi quelle passioni che il processo di omologazione degli ultimi anni ha via via spento. Nell’intervista che segue ci parla del disco, ma anche della sua ricerca poetica, della grande figura del produttore Lilli Greco e dell’immagine di sé come cantautore che suona la chitarra.

Mario, partiamo dall’immagine. Mi dicevi della tua scelta di non comparire con una tua foto sulle copertine dei tuoi dischi, già da molto tempo.
Sì, da più di vent’anni. Nel momento in cui ho potuto decidere, ho fatto questa scelta estetica; ma perché credo che sia una gioia fortissima scrivere una canzone, e poi suonarla, che nulla ha a che vedere col come la porgo: non so se mi spiego? Noi la canzone un po’ la disprezziamo pure come oggetto creativo, rispetto ad altri. Eppure, pensa, che questa cosina piccina così, dal punto di vista artistico è l’unico oggetto che immediatamente ti riporta indietro nella memoria. Non ce n’è un altro. Nemmeno un libro, un giornalino di quand’eri ragazzo, un film, perché basta sentire nell’aria una canzone… L’attacco di “Sapore di sale”, scritto da Ennio Morricone, mi proietta subito nel pullman che mi portava in Toscana da bambino. Subito, io sono là dentro…

O un altro attacco formidabile, quello di “Se telefonando” cantata da Mina, che a me evoca il primo campeggio con gli amici…
Vedi, senza volerlo abbiamo citato due arrangiamenti di Morricone, perché anche l’intro di “Se telefonando” è opera sua. Lui è stato un grande arrangiatore della RCA, per cui le canzoni tu le riconoscevi già dall’attacco. Oggi, francamente, se tu senti un pezzo fai fatica a capire, fai fatica – se non canta qualcuno, e spesso anche se canta – a individuare subito di che canzone si tratta. C’è una voglia di omologarsi, di stare insieme perché insieme ci si fa più coraggio, mentre nella creatività ci vuole la diversità, ci vuole l’originalità, anche nella pochezza, ma ci vuole. Ricordo delle interpreti straordinarie, nel senso letterale del termine, cioè ‘fuori dall’ordinario’, che stonavano tantissimo, ma che c’avevano la famigerata «robba» [nel senso di ‘sostanza’, secondo un termine usato spesso da Lilli Greco – N.d.R.], per cui non ha importanza se tu stoni o no (certo non come una campana…), l’importante è che ti arrivi, questo brivido interno. Personalmente, vivo solo di questo, e non soltanto nella musica. Io ho l’ossessione di annoiare, ma per fortuna ho molte curiosità, ho molti aspetti che voglio colmare e raccontare; e questo mi aiuta tantissimo ad amare le cose che faccio.

Il raccontare, una prerogativa da cui la società attuale si è molto allontanata…
Noi oggi, più che raccontare e ascoltare, vediamo. Dobbiamo sempre interagire con uno schermo, per scrivere, per vedere i film, per mandare e ricevere corrispondenza. Abbiamo perduto il nostro senso arcaico delle cose, che è anche bello, perché legato alla voglia ancestrale di sentire gli odori, di provare sensazioni fisiche; ecco, la fisicità, una cosa autentica. Questo per me è il bello del raccontare e ascoltare storie. Questa dimensione la sto recuperando con mia figlia, che me le chiede e io ci provo a raccontargliele. Questo mi rende felice.

Sei padre di una bambina?
Sì, ha sei anni e si chiama Nina.

Come la tua canzone più famosa.
Tu devi sapere che mio padre si chiamava Nino. Quella della canzone è la storia dell’incontro di un lombardo e di una toscana in una notte di bombardamenti a Roma, che erano i miei genitori, e poiché lui si chiamava appunto Nino, io per contrarre la storia e i loro due nomi, ho intitolato la canzone “Nina”, così ho messo lui e lei insieme. Oggi, spesso, le maestre chiedono a mia figlia di cantare la canzone, ma lei non la sa! Però Nina è consapevole di chi sono, questo sì, perché quello che il mio lavoro mi permette di fare è di saper prendere dei tempi; poi io me li prendo pure troppo, non volendo ‘esserci’ a tutti i costi. Almeno i primi due anni siamo stati sempre insieme, lei ed io. Quando Nina era piccina piccina, la mettevo nel lettone con tutti i cuscini intorno e, intanto, io suonavo camminando intorno al letto; perché io non riesco a suonare da fermo, almeno quando sono a casa. E lei si è sempre divertita tantissimo e quindi, in questo senso, ha una vera consapevolezza del mio essere musicista e cantante. Poi da grande magari mi chiederà che lavoro faccio per vivere, sai la classica domanda rivolta a noi cantautori o musicisti in genere!

Castelnuovo_cover_webGià… Mario, arriviamo al tuo nuovo CD Musica per un incendio. Ce ne vuoi parlare?
Certo. In questo disco c’è la pazzia che ognuno di noi ha con sé. Per esempio in uno dei brani, “Torna a casa Lassie”, mi rendo conto che è una cosa da ricovero… E qui devo tirare in ballo il grande Lilli Greco, produttore di questo disco, il suo ultimo lavoro prima del peggioramento della sua malattia, che purtroppo di lì a poco lo ha portato via: nel sentire questo pezzo pazzo dal vivo non riusciva a smettere di ridere e, quando finalmente ritornò serio, mi impose di andarlo subito a registrare per includerlo nell’album… Io sono sempre più convinto che un disco è per il suo autore come una carta d’identità, una lettera di presentazione. In questo disco c’è tutto, spudoratamente, i momenti di cupezza, quelli di eccitazione, c’è anche l’amore fisico, come in quella canzone intitolata “Gli innamorati coi capelli bianchi”, dove appunto i protagonisti hanno delle difficoltà pratiche, si raccontano cazzate reciproche per tirarsi su, cose che non si dicono mai. C’è anche l’aspetto romantico, certo, ma c’è dell’altro che, se ce lo confessiamo, diventiamo molto meno distanti gli uni dagli altri.

Hai perfettamente ragione. E quando sono stati scritti i pezzi, tenuto conto che erano otto anni che non usciva un tuo lavoro?
Beh, io ho scritto tanti pezzi che erano chiusi nel famigerato cassetto. Ma quelli di cui parliamo sono venuti fuori in tre-quattro mesi. E in quel periodo di lavoro bellissimo, condiviso insieme a Lilli, i pezzi mi sono venuti in modo naturale uno appresso all’altro, grazie a quei momenti di sintonia completa con gli amici musicisti. Alla fine del disco c’è la canzone “Trasteverina” che è cantata da Bianca Giovannini, la ‘Jorona’, una reginetta dell’underground romano, una sorta di Gabriella Ferri. Quando l’ho ascoltata cantare il mio pezzo, ho subito detto che la cantava mille volte meglio di me e – anche se l’avrei dovuta cantare io, era anche il pezzo che chiude il mio CD – l’ho lasciata a lei. La musica è come un laboratorio. È gioia sociale. E in questo la realtà della RCA e in particolare della IT, dove mi sono formato, è stata la culla dell’interscambio creativo.

Tornando alla realizzazione del disco, come si è svolto il tuo lavoro di autore-interprete e di Lilli Greco produttore? Avete lavorato in tandem?
Purtroppo no, perché durante le sedute di registrazione, a un certo punto Lilli ha cominciato a stare molto male…

Quando avete cominciato a registrare?
Guarda il disco è uscito quest’anno, nell’aprile del 2014, ma in realtà l’avevamo realizzato un anno prima. Devi sapere che è stato un disco molto incidentato, a tanti livelli. Ha avuto molte soste per cause non artistiche, la principale delle quali è stata la malattia di Lilli. Noi musicisti abbiamo cercato di seguire le sue indicazioni nei limiti del possibile. Sai, lui ha partecipato all’inizio all’impostazione delle cose, era tranquillo perché è riuscito a essere presente quando abbiamo impostato gli arrangiamenti e le tonalità, e soprattutto alcune voci che avrei dovuto fare in talune canzoni a cui lui teneva particolarmente; e poi, giustamente, ha cominciato a pensare alla sua salute e alla fine… purtroppo non ce l’ha fatta. Dopo questa fase dolorosa, abbiamo ripreso e concluso, e sono contento perché la sua impronta c’è ed è forte.

Interveniva in alcuni casi nella struttura delle canzoni?
No. Qui sta la grandezza di Lilli. Lui si fidava di alcuni autori, io ero tra questi, e quindi lui rispettava la struttura di partenza che io creavo. Lilli è stato davvero bravo nel ‘capire’ le voci. Per esempio c’è un pezzo, “Gli amanti”: ecco, tenendo molto a quel pezzo, lui ha voluto che lo cantassi ‘bene’, nel senso cioè di ‘interpretarlo’ alla maniera degli chansonnier, alla Aznavour. E aveva ragione, quel pezzo non poteva essere semplicemente ‘cantato’, dovevi interpretarlo, porgerlo in un certo modo… da ‘viveur’!

E si sente benissimo che hai saputo interpretarlo in questa chiave. Il pezzo è comunque molto bello, con un inciso ampio, ispirato e con un arrangiamento orchestrale perfetto.
Grazie. Tornando a Lilli, mi piaceva il modo in cui trattava alcuni miei pezzi, tipo appunto “Gli amanti”, quando proprio non li considerava più come semplici canzoni, ma come ‘altre cose’: le cose che si ‘porgono alla Donna’. Lui era l’ideologo della ‘Donna’!

Mario, la tua identità di cantautore, e abbiamo sentito anche di interprete di te stesso, è sostenuta musicalmente dalla chitarra. Come ti dipingi pensando a Mario Castelnuovo che canta e suona la chitarra?
Oh, allora, oggi ho molto piacere ad andare in giro con la chitarra. Ai tempi di “Oceania”, siamo nel 1981, avevo un approccio diverso riguardo a ciò, perché si veniva dagli anni ’70, dove se non avevi la barba lunga, l’aria cupa, e soprattutto la chitarra, non eri un cantautore credibile. E per questo pensai che se avessi proposto “Oceania” con la chitarra, così come mi era nata, mi sarei trovato a confondermi tra i tanti. Allora la realizzai in modo diverso, forse più fantasmatico, più visionario. Oggi, essendo tutto tecnologizzato, sono voluto tornare a quella voglia che s’era persa trent’anni fa.

Mario, vedo che hai le unghie della mano destra lunghe e ben curate. Questo dà già alcune indicazioni sul tuo stile chitarristico. Studi o comunque suoni quotidianamente?
Sì, però sono uno ‘sciamannato’ riguardo a tutte quelle attenzioni tipiche dei cultori dell’oggetto chitarra. Io l’adoro, l’amo, la possiedo ogni giorno, perché così per me è più viva, è più donna, è più vissuta. Ma non chiedermi di passare il panno adatto per tenerla lucida!

Ci parli delle tue chitarre?
Ho una Takamine di vent’anni fa. Poi posseggo una bellissima Eko del 1981, l’ultimo modello che dettero in sponsor. Ce l’ho su in Toscana, perché quella è proprio mia quando vado lì. Ho anche una Ovation da studio, sempre con corde di metallo, con cui suono in casa. Però ultimamente mi sta venendo molta voglia di comprarmi una chitarra classica. Ma temo che le mie unghie abbastanza lunghe, che utilizzo anche per ‘zappare’, oltre che per arpeggiare, non siano molto indicate.

Qual è la chitarra che si sente sul disco?
La Takamine, quella professionale. Sul disco ho suonato anche l’ukulele. Ho imparato un po’ a suonarlo durante questi ultimi anni. Mi piaceva utilizzarlo nel CD perché è uno strumento che mi mette molta allegria, e trovo che sia anche molto ironico. Un pezzo in cui l’ho utilizzato s’intitola “Santa Maria delle caramelle”, che è nato proprio da un piccolo arpeggio che ho trovato mentre lo strimpellavo.

Mario Castelnuovo e Luciano Ciccaglioni
Mario Castelnuovo e Luciano Ciccaglioni

Hai previsto dei concerti per promuovere il disco?
Premesso che in tutti questi anni di silenzio discografico ho avuto una continuità di esibizioni dal vivo, ora mi sono messo in testa una cosa che non so dove mi porterà; è come se avessi voluto azzerare tutto quello che facevo di solito prima: desidero che questo disco venga conosciuto, perché per me rappresenta tante cose. Due in particolare. Una: la voglia di camminare controvento, perché dischi così non si fanno più – nel bene e nel male – con questa intensità, questa voglia musicale, letteraria; con uno studio anche per la copertina e sul libretto: una cosa artigianale, insomma. E l’altra cosa: non posso non dire che Lilli Greco ha voluto fortemente farlo, perché ci credeva. E questa sua volontà mi lusinga e mi commuove. Ecco perché dico che desidero tanto che venga conosciuto. Perché c’è lo sforzo ‘innamorato’ di tutti quelli che vi hanno preso parte, a vario titolo. Per raggiungere quest’obbiettivo, conto tantissimo sul passaparola, a dispetto di quest’epoca tecnologizzata, perché so che c’è la voglia di tornare a quel tipo di canzoni di cui parlavamo. Il disco inizia con un tuono, proprio per dire: «Fermi là, c’è un temporale in corso, ascoltate!» Altrimenti non riesci più a fermarla la gente: c’è la musica dappertutto, ma nessuno l’ascolta più. Poi, ovviamente, ho in testa dei concerti dal vivo con una band formata dai musicisti che hanno suonato sul disco, a partire da Luciano Ciccaglioni alla chitarra acustica, strumentista di grande valore e di grandissima esperienza. Pensa che lo stesso Mario Schilirò, magnifico chitarrista elettrico che tutti noi conosciamo, ma che nel mio disco ha suonato l’acustica, bene, al cospetto di Ciccaglioni si è addirittura inchinato! E poi ancora Maurizio Dei Lazzaretti alla batteria. Ecco, per la presenza di tutte queste persone meravigliose vorrei che il mio disco avesse quell’attenzione che merita, proprio per la passione e l’amore che vi hanno profuso, affinché si sentissero gratificate dal lavoro svolto.

Gabriele Longo

PUBBLICATO
Chitarra Acustica, 11/2014, pp.35-37

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