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Cat Stevens – Le sette vite di un ‘gatto’ qualunque

(di Sergio Staffieri) «Racconto storie come i cantanti di ballate del medioevo che andavano di città in città e cantavano nelle piazze pubbliche dei villaggi. Il paragone può sembrare ingenuo, ma credo che sia giustificato»

A metà degli anni ‘60 Londra era il centro del mondo. Da lì si irradiava tutto quel che faceva tendenza e dettava la moda in ambito musicale, artistico, di abbigliamento. È superfluo e inutile ricordare, anche solo brevemente, che cosa fosse accaduto e accadesse in quegli anni, dai Beatles in giù, ma è utile riaffermare quanto alta sia stata lì, allora, la creatività artistica. Sottrarsi a una tale influenza era impossibile se si viveva dall’altro lato dell’Oceano (o al di qua della Manica), figurarsi se si fosse nati e cresciuti tra Soho, Denmark Street (la Tin Pan Alley inglese) e zone limitrofe, cioè ‘al centro del centro del mondo’. Se, come il tipo di cui parliamo è convinto che sia, nulla succede a caso, il destino di Steven Demetre Georgiou (nato nel 1948) era già segnato.

«To be what you must you must give up what you are» (“Be What You Must”, Roadsinger, 2009)
In un’intervista a Das Magazin Cat Stevens (ormai da tempo ‘Yusuf Islam’) citò una frase del mistico medievale tedesco Meister Eckhart che pensava corrispondesse a quello che aveva sempre cercato di fare: «Per poter essere, devi abbandonare quello che sei» (la frase era poi diventata un verso di una sua canzone). Non c’è dubbio che egli sia stato effettivamente un uomo e artista mai fermo sulle proprie posizioni, o meglio, conforme ai propri princìpi e per questo disposto a muoversi e cambiare in un continuo tentativo di ricerca e maggiore definizione, più che ri-definizione. Per comodità lo si continuerà a chiamare qui di seguito Cat Stevens, ma non solo per questo: l’interesse maggiore qui è per i suoi tre dischi degli anni ‘70 – anzi, dell’anno ‘70, in cui uscirono Mona Bone Jakon e Tea for the Tillerman, e prese corpo Teaser and the Firecat – che gli son valsi successo, riconoscimento e affetto da chitarristi acustici e amanti della canzone e della musica tutta. Ed allora era ancora, e in riferimento a quegli album sarà sempre, ‘Cat Stevens’.

Stevens sembra uno di quei frutti tipici dell’Inghilterra del dopoguerra: figlio di padre greco e di madre svedese, nato a Londra, personaggio ‘dickensiano’ come definito una volta da un giornalista, crebbe nelle strade intorno al ristorante dei genitori, in cui dava una mano (scriveva canzoni nella sua testa mentre lavava i piatti), fece i primi studi in una scuola cattolica e poi fu studente d’arte (come tanti altri musicisti inglesi più grandi di lui attivi in quegli anni: un giorno si dovrà davvero fare uno studio su questo fenomeno) alla Hammersmith School of Art. Stevens saliva spesso sui tetti di quei palazzi (come quello del Guitar Shop di Denmark Street che si vede in un documentario trasmesso dalla BBC, straordinariamente simile a quello ritratto nella copertina del primo disco di John Martyn) e dopo aver acquistato una chitarra a quindici anni, spronato e portato avanti dal fratello, divenne teen sensation e idolo pop coi brani raccolti in Matthew and Son e New Masters (Deram/Decca, 1967). Guidato da Mick Hurst (un passato negli Springfields assieme a Dusty Springfield), con un nome d’arte affibbiatogli da una ragazza secondo cui aveva occhi felini, e canzoni scritte da solo secondo i canoni di quegli anni (e che in sede di produzione venivano gonfiate dall’orchestra), Cat Stevens si impose all’attenzione generale tanto da andare in tour con Jimi Hendrix (con cui discusse, in Svezia, su chi dovesse suonare per ultimo: «Mia madre è svedese, si aspetteranno che sia io a chiudere!») ed Engelbert Humperdinck, fornì un successo da classifica ai Tremeloes e divenne uno dei ragazzi-poster della Swinging London e del Carnaby Street style.
È difficile rintracciare nei suoi primi due dischi (la sua prima vita musicale) i germi di quel che avrebbe fatto poi. Essendo ancora giovanissimo era, per sua stessa ammissione, sedotto dai vantaggi dello status di notorietà acquisito e senza pieno controllo sulla propria musica. Ne risultò una produzione poco incentrata su una programmazione ‘a lungo termine’ o secondo un filo conduttore come può essere un album contrapposto a una raccolta di singoli. I due primi dischi erano un allegro pastrocchio anni ‘60, con l’orchestra bene in evidenza, fiati e legni a punteggiare i passaggi, commenti di violoncello o clavicembalo, fraseggi di flauto nei momenti di umore brasiliano, l’immancabile tempo di bolero (inizio di “I’ve Found a Love” in M&S), ma anche con un gusto melodico vicino a Bacharach quando non a McCartney (“Granny” in M&S) nel primo album, e più vicino a certa psichedelia (“I’m So Sleepy” in NM, dove la melodia a un certo punto – «Soon I’m gonna slip away»… – riparte alla Syd Barrett e arriva in linea diretta ai Blur) nel secondo. In breve, i primi due dischi erano il classico pop sinfonico, con alcuni esperimenti rispetto all’impianto di partenza (ogni tanto spunta un po’ di soul, a volte l’armonica porta dalle parti del country), ma nulla o quasi era incentrato sulla chitarra (il primo strumento di Stevens, d’altronde, era stato il pianoforte) pur presente in fondo a tutto: si pensi a “I Love My Dog” (che Cat suonerà negli anni successivi dal vivo, ridotta all’osso, con il chitarrista Alun Davies), introdotta proprio dalla chitarra sui bassi, o a quel gioiellino che è “Portobello Road”, capolavoro di grazia e semplicità, dove al testo perfetto per l’epoca, scritto da Kim Fowley, Stevens abbinò una semplice parte di chitarra (all’ascolto sembrerebbe con corde in nylon) in cui arpeggi, ritmica e bassi alternati agli accordi sono la base dell’allegra melodia (anche fischiettata, proprio come un flaneur a zonzo per Portobello Road). Nel secondo album c’era invece “The First Cut Is the Deepest” (della cui somiglianza con la posteriore “La canzone del sole” di Battisti è stato già detto tanto), la cui intelaiatura di arpeggi iniziale lascia intravedere un po’ delle preferenze future, e poi “Blackness of the Night”, ancora più vicina ai pezzi acustici successivi, verosimilmente frutto di un ascolto del folk revival anglo-americano (viene in mente “Universal Soldier”, brano di Buffy Sainte-Marie, cantata in Inghilterra da Donovan, per dire). Escluse queste canzoni, la chitarra nei primi dischi era ancora lontana dall’essere protagonista.

Fra le influenze del primo periodo Stevens ha riconosciuto quella di Leonard Bernstein (l’ascolto di West Side Story era fra i suoi preferiti), dalla cui musica ha preso, a suo dire, lo staccato, e anche di Porgy & Bess di Gershwin, di cui apprezzava il flusso melodico capace di sorprese e scossoni. Il suo ‘idolo più grande’ era Leadbelly (“Goodnight Irene” e “Pick a Bale o’ Cotton”) e ancora prima Buddy Holly con “Peggy Sue”, che fu uno dei primi dischi che Cat comprò e di cui apprezzava il ritmo, l’heartbeat per usare le sue parole. Ascoltò ovviamente i Beatles, gli Stones e Dylan (al jukebox del Lorelei Cafe, da ragazzino, spendeva i suoi spiccioli per ascoltare “I Feel Fine”, “It’s All Over Now”, “Like a Rolling Stone”) ma anche Nina Simone e, nei primi anni ‘70 dopo il tour in America, Leo Kottke. Nel 1973 affermò di ascoltare molto anche Stevie Wonder, ma in effetti dopo il primo periodo della sua carriera, in cui si concentrò soprattutto sulla propria musica, quando ascoltava dischi non si poneva restrizioni di genere: «Mi piace ascoltare ogni tipo di musica. Questa mattina stavo ascoltando musica giapponese, musica elettronica [in un’altra intervista citò Stockhausen, che ‘bilanciava’ con Bach] e i Dubliners» (intervista a Star Magazine, 1973). Da non trascurare è anche l’ascolto di Paul Simon, che aveva pubblicato nel suo periodo inglese The Paul Simon Songbook – album fra i preferiti di Stevens – tanto che nel 1971 il fedele Alun Davies confessò a Rock Magazine di essere preoccupato che la gente pensasse che lui e Cat suonassero troppo come Simon e Garfunkel. Senza dimenticare l’ascolto in genere di ogni tipo di musica folk: negli anni Stevens ha parlato di quella europea di varia provenienza, di quella russa – «che ha un forte impatto su di me» – e poi ancora di quella sudamericana).
Una delle influenze maggiori, anche quando sembra meno evidente, è poi la musica greca. Stevens ha affermato come questa abbia dato alla sua musica una qualità particolare che ha sempre spiazzato gli altri. Esempio eloquente è “Rubylove”, da Teaser and the Firecat, dove ci sono due bouzouki e versi in greco. Stevens ascoltò molta musica greca dal fratellastro; nel 1974 confidava a Record Mirror: «È stato solo di recente che mi sono accorto di quanto inconsciamente il mio lavoro sia sempre stato influenzato dalle forme della musica greca. Ho un tale piacere nell’ascoltarla, perché era la preferita di mio padre. È semplicemente naturale. Il mio fratellastro nato dal primo matrimonio di mio padre, George, suonava molto il bouzouki. È stato uno dei primi suonatori di bouzouki a venire a Londra e suonare nei club circa quattordici anni fa. Io andavo a sentirlo. Penso che sia stata davvero una delle mie prime introduzioni alla musica, ascoltare la musica del bouzouki e il tipo di timing che ha. Per me è naturale cambiare il timing di una canzone mentre la eseguo, andare fuori dal beat o qualsiasi altra cosa che tecnicamente non torna, ma in questo caso sì. Ad esempio a metà di una canzone, se improvvisamente mi interrompo, per me va bene. Uso molto il silenzio, mi piace trattenerlo per un po’ e renderlo qualcos’altro». L’amore di Stevens per la musica greca, oltre alla qualità ritmica che ne ha derivato – evidente in “Rubylove” e nelle ritmiche di altri brani, mai scontate, spesso affidate a ‘schitarrate’ che sembrano derivare direttamente dal bouzouki; e si pensi proprio al timing – è dovuto alla sua passione per la musica nera, con cui era cresciuto, e all’affinità, per lui, tra le due: «Ovviamente, amo la musica greca. Abbastanza stranamente, mi ha aiutato a capire e sentire la musica nera, che amo. La musica inglese sembra originare dalla tradizione. La musica nera ha le sue radici nei sentimenti e nelle emozioni. I musicisti neri sentono davvero la loro musica, perché è nel loro sangue. Credo che sia la stessa cosa in Grecia» (in Star Magazine, 1973).

Il punto di partenza nella composizione è stato quasi sempre la melodia, ma senza mai affidarsi a una forma precostituita o un processo definito (anche lo scrivere è sempre stato per Stevens una ‘scoperta’ continua): «Vengo ispirato dalle cose più strane. Può essere che inizi con una parola, e quindi una melodia con quella parola. E si può continuare da lì. Oppure avrò una melodia, o scriverò alcuni accordi e ci metterò su un’idea melodica. Ma, per me, deve cambiare sempre». Spesso Stevens si è anche ‘rifatto’ a cose esistenti, anche l’ascolto di un album tradizionale, «ascoltando e all’improvviso prendendo un’idea» che porta poi da un’altra parte («Lo usi e lo butti fuori di nuovo, alla tua maniera» come disse a Circus Magazine nel 1971). Un caso esemplare è “I Love My Dog”, di cui lo stesso Stevens ha rivelato la fonte d’ispirazione e la melodia presa in prestito: “The Plum Blossom”, pezzo del 1971 del jazzista Yusef Lateef.

1968, 1970: annus horribilis, annus mirabilis
«Quando ero malato, ho avuto conoscenza della morte, e questo mi ha fatto capire che vivere è un bonus” (Cat Stevens, 1972)
Nel 1968 Stevens si ritrovò con un polmone collassato, l’altro pronto a seguire lo stesso destino, e confinato a letto dalla tubercolosi. Fu ricoverato in una clinica circondata da «nient’altro che alberi» nella campagna inglese, fuori Londra, dove restò tre mesi e passò il tempo a riflettere, chiarirsi e rifinire nuove canzoni stilisticamente slegate dal passato pop, affidate alla chitarra acustica (l’unica cosa che avesse lì assieme a dei libri), idealmente spoglie di ogni orpello, dai testi più introspettivi: questo processo sarebbe durato un anno. Ricominciò a disegnare e dipingere (ne trarranno beneficio le copertine dei suoi stessi album) e cambiò etichetta discografica, trovando braccia aperte presso la Island di Chris Blackwell, una delle più importanti per la nuova musica di quegli anni. Blackwell era famoso per la libertà che dava ai suoi artisti: «Abbiamo firmato con la Island perché era una compagnia discografica che riconosceva il fatto che all’artista deve esser data libertà musicale, affinché presenti il suo lavoro al meglio». Ricordiamo brevemente che in quegli anni erano di casa alla Island nomi come Nick Drake, John Martyn, i Traffic con cui Stevens andò in tour in America, Fairport Convention… Stevens cambiò anche produttore e scelse Paul Samwell-Smith, storico componente degli Yardbirds, che aveva apprezzato per il suo lavoro coi Renaissance: era nato il nuovo Cat Stevens, che di lì a poco avrebbe pubblicato – a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro – tre dischi che da soli gli sarebbero valsi un posto di preminenza nella storia della musica.

«In ospedale coprii tutti gli specchi con della carta per qualche tempo, perché stavo davvero entrando nell’ottica di trovare il vero me stesso […] Quando alla fine tolsi via la carta, c’era questo pizzetto, e sembrava così appropriato» (Cat Stevens, 1977)
Durante il periodo in clinica Stevens, determinato ad allontanarsi dall’esteriorità delle cose, approfondì le letture sulle religioni. Il passaggio dal primo al secondo Stevens, musicalmente parlando, coincise con una estrema economia di mezzi e persone, riducendo tutto al minimo indispensabile: quando non da solo, era accompagnato da Alun Davies alla chitarra, più il basso e talvolta la batteria (Gerry Conway, altro nome storico: Strawbs, Fairport Convention…). Ritrovò, insomma, anche una dimensione più intima, con legami più certi: non ce la faceva più ad andare in studio di registrazione, dove agli orchestrali non importava nulla di quel che suonavano; li ha definiti più volte, nel tempo, come clockwork players che leggevano lo spartito e passavano ad altro, senza preoccuparsi minimamente della musica che suonavano. In un’intervista del 1971 per Sounds, Stevens disse di Davies: «Oggi cerco solo qualcuno su cui fare affidamento, qualcuno che mi piaccia, e ad ogni modo non c’è niente di più bello che vedere qualcuno su un palco, che comunica con qualcun altro sul palco».

«Sono sempre alla ricerca di quella pace che sogna la gente di città» (Cat Stevens, 1971)
La seconda vita di Cat Stevens coincise con i tre album frutto del periodo di crisi e riflessione. È impressionante pensare alla loro qualità: pur nell’uniformità generale raccolgono in un disegno unico brani spesso molto diversi per durata, struttura e ritmo. Va fatta qui un’osservazione: spesso (se non ci fossero testimonianze video d’aiuto) sarebbe difficile dire chi dei due (Stevens e Davies) suona certe parti. Questo per via della scelta di chitarre simili (agli inizi soprattutto Gibson, poi dal vivo Ovation) e anche per lo stile simile nell’approccio alla canzone: ritmiche unite ad arpeggi, fraseggi di abbellimento sugli arpeggi o sulle ritmiche, bassi puntati. Le loro due chitarre sembrano davvero essere due aspetti – due voci – di un disegno musicale unico. Di norma le canzoni presentano un alternarsi delle tecniche (ad esempio inizio in fingerpicking con insistenza su bassi fissi, o alternanza tra fondamentale e quinta, e note al canto ribattute, poi strumming ma con i bassi ben delineati) o un loro fondersi (fraseggi ostinati uniti, anche nella stessa zona della tastiera, così da risultare in un intreccio). A volte, mentre una chitarra accompagna l’altra arricchisce con arpeggi, a volte l’arpeggio (o il fraseggio a note singole a partire dall’arpeggio) è riservato a momenti di raccordo o a cadenze; gli armonici vengono usati raramente, in funzione di arricchimento della tessitura. Le ritmiche variano dalle più semplici e canoniche, per l’accompagnamento della ‘canzone’, a figurazioni più frammentate – si veda il discorso su ritmo, tempo e timing di Stevens stesso – e spesso i due usano rivolti diversi. Di norma si ha questa base, arricchita con pochi altri strumenti, per accumulazione progressiva. Sintetizzando si può dire che i tre album sono quasi in una successione ABA, dove ad A in genere corrispondono brani più brevi, strutture più regolari, prevalenza di arpeggi e arrangiamenti più scarni, e a B corrispondono maggiore presenza del pianoforte e una base ritmica più rock. È, come detto, una lettura sintetica: come è possibile vedere, la realtà è più composita e le eccezioni alla regola sono lo strumento con cui è introdotta varietà nel discorso musicale portato avanti, che però – si ripete – sembra essere quasi fatto secondo un unico, grande disegno.

Mona Bone Jakon (1970) è il primo album del ‘rinato’ Cat Stevens, ed è introdotto da un brano che ben rappresenta il nuovo corso: “Lady D’Arbanville” è aperto da un arpeggio ostinato e chiude sugli armonici; già qui è evidente l’interesse di Stevens per l’unione di più piani ritmici e armonici, anche appartenenti a mondi diversi: il brano è in minore, Stevens esegue bicordi che danno una connotazione centro-sudamericana e dà colpi su cassa, ma il basso accompagna su un modulo di base riconducibile al samba. Uno dei momenti più interessanti è l’ostinato a mo’ di riff sulle corde basse di una chitarra, accoppiato all’arpeggio dell’altra. In MBJ a volte la preferenza sembra essere per una nylon string (verosimilmente Stevens) accoppiata ad un’acustica con corde in metallo. Stevens esplora diverse possibilità ad ogni nuova canzone: in “Pop Star” si pone come un cantante blues, probabilmente nel solco dell’amato Leadbelly: dopo uno slide discendente e fraseggi blues essenziali (frammisti a ritmica) delle chitarre, sulla successione I-IV-I, Stevens e Davies eseguono uno strumming vigoroso per le misure conclusive del giro (dove invece della consueta successione V-IV abbiamo un efficace III-Vm-IV). Piccola osservazione di passaggio: se effettivamente Battisti conosceva la produzione di Stevens (come supposto per “First Cut…”), anche questo brano (il cantato, l’uso della chitarra in contesto di blues minimale) potrebbe aver avuto influenza su di lui. Una delle prime ballate di Stevens più canoniche, per ritmica e successione di accordi, è “Trouble”, affidata all’acustica in strumming e abbellimenti sul tema. “Mona Bone Jakon” torna dalle parti di “Pop Star”: è la versione (non canonica, cioè non secondo schemi di dodici battute regolari e progressioni associate) che Stevens offre del blues. In La, con arpeggi, fraseggi sui bassi e ritmica, Stevens canta delle difficoltà ad avere un hard on del suo ding-a-ling (come lo chiamava Chuck Berry) come se stesse eseguendo un mantra; la parte della chitarra, qui, dà un’idea di avvolgimento su se stessa a cui Stevens sembra affezionato (i bassi Do-Re-La). “I Wish I Wish” è uno dei brani più ritmici, dove la densità dell’arrangiamento aumenta man mano: ritmica acustica, organo fisso, pianoforte che punteggia e un assolo di acustica che (effetti della ripresa e dell’amplificazione) sembrerebbe doppiato. A tre quarti dell’album è “Katmandu”: in apertura arpeggi con accenti non regolari, che più avanti si fondono ad altri (seconda chitarra), e strumming. Stevens e Davies tessono una trama sognante adeguata al testo, e forniscono il primo vero brano di interesse per fingerpickers. Ospite al flauto è un giovanissimo Peter Gabriel, che accresce qui l’esotismo del brano (Stevens disse in proposito a Disc & Echo Magazine, nel 1972: «Non sono mai stato a Katmandu, ma è irrilevante. I testi sono solo simbolici e rappresentano la nostra ricerca di libertà e purezza»). “Time” porta avanti la direzione ‘mistica’ di “Katmandu” ed è un brano vicino, per certi versi, a certe cose di John Martyn, lasciando trasparire un’influenza riconducibile, credo, anche a Paul Simon (il momento di arpeggi verso la fine, dopo 1.06); nella sua brevità (meno di un minuto e mezzo) è uno dei brani più arditi di Stevens: gli arpeggi rasserenanti alla Simon svaniscono in un accordo aumentato che chiude con una nota di ambiguità. “Fill My Eyes”, penultimo brano, è uno dei più riconducibili al tracciato del folk revival e non solo: qui l’influenza di Paul Simon è forse più presente, la chitarra esegue la ritmica punteggiando i bassi, e il IV-V-I seguito da bassi discendenti («I’m just a coaster»…) fa pensare a momenti posteriori di John Denver, che avrebbe potuto ascoltare Stevens quando ebbe successo in America. Anche in un brano relativamente canonico, Stevens è capace di piccole variazioni per ravvivare il discorso: dopo la seconda strofa c’è un riff di chitarra giocato sulla quarta dell’accordo, riconducibile agli anni ’60, che serve da lancio a cambi di accordo (Sol, Mi, La), poi un passaggio classicheggiante e un semplice V7 per tornare alla strofa. “Lilywhite”, in chiusura, pure nella sua semplicità (il I-IV di base) è capace di finezze (l’accordo di Do suonato premendo anche la nota Sol al cantino, sul terzo tasto, mantenuto nel passaggio al IV che diventa così FAadd9) e variazioni (gli arpeggi conclusivi, dopo l’ingresso dell’orchestra: da segnalare, per quanto riguarda l’arrangiamento, l’uso della stessa e la conclusione, dove sul pedale del contrabbasso si muovono gli archi come per volute di note). Se Stevens voleva stupire tutti col suo nuovo corso, ci era riuscito in pieno.

Tea for the Tillerman (1970) è forse il disco più famoso del secondo periodo, anche per la presenza di due brani, “Father and Son” e “Wild World”, che sono diventati classici. Meno chitarristico (c’è maggiore presenza del piano, acustico o elettrico), nei testi mostra maggiormente l’evolversi del pensiero dell’autore (“Where Do the Children Play”, dove l’acustica ha mera funzione di accompagnamento al piano elettrico). “Hard Headed Woman” conferma l’interesse di Stevens per strumming e ritmiche rock, ma in combinazione agli arpeggi iniziali (accentando ogni tre note invece che due anche sui tempi regolari). Il brano si segnala per la progressione di accordi, dove Stevens gioca ad affermare, eludere e riaffermare la tonalità. È uno dei suoi modi più consueti di trattare le armonie, quasi ‘galleggiando’ fra centri tonali diversi. “Wild World” è, si diceva, un classico di Stevens, ed è per certi aspetti come “Trouble” nel disco precedente: maggiore quadratura, armonie più canoniche, ma ha comunque i suoi motivi di interesse: a partire dall’inizio sulla seconda metà del consueto giro armonico (IIm-V), il passare per due tonalità e per la scaletta discendente per valori regolari, che disegna il passaggio dal IV al V nel chorus (l’uso è simile a quello dei Beatles in “Helter Skelter”). In generale nel disco la chitarra è più votata allo strumming, come in “Miles from Nowhere” e “But I Might Die Tonight” (eccezion fatta per gli arpeggi iniziali), mentre in “Longer Boats” (dove parla di dischi volanti) l’inizio è degli arpeggi incastrati delle due chitarre, sui due canali. “Into White” conferma l’abilità di Stevens e Davies nel creare piccoli gioielli: sull’arpeggio di base dell’una, l’altra chitarra fa fioriture e il brano è, forse non casualmente, nella stessa posizione di “Katmandu” nel disco precedente. “On the Road to Find Out” è un’allegra canzone solo apparentemente semplice: Stevens inizia su rivolti degli accordi (il Sol in posizione di Re al settimo tasto) e, tornato in prima posizione, fa spazio ad arpeggi dell’altra chitarra. “Father and Son”, penultimo brano (prima della title-track), vede Stevens eseguire la ritmica e Alun Davies abbellire con fraseggi che ricalcano il tema. Un’ultima osservazione va fatta per “Tea for the Tillerman”, affidata al piano: emerge qui la bravura di Stevens nello scegliere sempre armonie che, pur semplici, riservano sempre qualche piccola sorpresa; il brano, brevissimo, si conclude con un passaggio quasi barocco che chiude sul modo lidio, il quale dà un tocco fuori dal tempo. È interessante notare che spesso dal vivo, anche nei brani in cui su disco era al pianoforte, Stevens passava alla chitarra. Nell’edizione rimasterizzata dell’album uscita alcuni anni fa, sono state incluse in un secondo dischetto alcune demo e versioni dal vivo: in “Where Do the Children Play”, invece di piano e chitarra, abbiamo due chitarre nella solita combinazione strumming e arpeggio, con variazione del fraseggio iniziale; mentre, in “Sad Lisa”, Alun Davies esegue un assolo all’acustica (assente in studio) che ricalca la melodia. Insomma, la chitarra acustica era sempre al centro di tutto.

Teaser and the Firecat (1971) è l’album che chiude il periodo acustico di Stevens. Meno prodotto del secondo (di cui fa però tesoro dell’impostazione ritmica) è più vicino al primo anche per la struttura: i brani si alternano come bozzetti, si recupera l’uso della chitarra con corde in nylon. Il pianoforte è più in evidenza in un solo brano (“Morning Has Broken”) e a suonarlo non è neppure Stevens, ma Rick Wakeman degli Yes (all’epoca molto attivo anche come turnista oltre che con gli Strawbs, dai quali venne l’aggancio). Stevens trovò il brano in un vecchio libro di inni e rimase colpito dalla sua «grazia» al punto di innamorarsene: cambiò un po’ gli accordi sotto la melodia (che derivava da un precedente tradizionale gallese, usato anche come melodia per la carola natalizia “Child in the Manger”): «Ero in una libreria e sentii che c’era una sezione dedicata alla religione al piano di sopra. Qualcosa mi disse “vai su”, andai e trovai questo libro di inni, lo aprii e iniziai a leggere le parole. Mi ci vollero circa quarantacinque minuti per capirle sul serio. E tutto diventava molto difficile, così me ne andai e imparai la melodia più tardi». “The Wind” in apertura conferma l’amore di Stevens per parti di chitarra semplici ma efficaci ed eleganti: si apre con l’armonico del Re ribattuto al dodicesimo tasto e arpeggi; quindi, tenendo l’accordo di Re, si gioca intorno alla terza sul cantino, ricalcando la melodia della strofa e chiudendo su un trillo. “Rubylove” è il brano in cui l’influenza della musica greca viene maggiormente allo scoperto: si muove attorno a un 7/8 di base, rendendo manifesta la preferenza di Stevens per tempi spezzati e composti, spesso irregolari, ed è arricchita dalla presenza di due bouzouki. Stevens stesso ammise di non saperlo suonare bene – qui non è lui a suonarli – ma è fuori di dubbio che l’ascolto ripetuto del fratello e degli altri musicisti greci abbia lasciato traccia nell’uso della sua mano destra sulla chitarra: spesso Stevens si dà a ‘schitarrate’ veloci, che sembrano adattate dal bouzouki, e in un’intervista raccontò di come, in tempi passati, si lasciasse andare a fraseggi veloci sulla chitarra. “If I Laugh” fa da contraltare al brano precedente: sognante, inizia con un fraseggio che è la testa del tema inglobato nella ritmica; anche qui gli arpeggi sono spesso parte conclusiva nella cadenza, e a metà del brano – quando salgono organo e batteria e Stevens esegue vocalizzi sugli arpeggi – sembra di sentire i Genesis dei momenti acustici. “Changes IV” è il momento rock affidato alla ritmica, con spostamenti di accenti. “How Can I Tell You” è uno dei brani più dolci di Cat Stevens, e anche dei più rivelatori di un certo uso della chitarra: i due suonano in posizioni diverse (uno con il capotasto) e gli arpeggi si incastrano. “Tuesday’s Dead” è invece un brano più ritmico, dove Stevens e Davies iniziano l’uno ripetendo quello che fa l’altro, per poi unirsi. È interessante vedere come anche qui ci si affidi a forme meno scontate degli accordi, come il secondo o primo rivolto, sulle prime tre corde; il fraseggio è discendente e si cambia tonalità in pochi secondi. Dopo “Morning Has Broken” che bilancia la vitalità di “Tuesday’s Dead”, c’è nuovamente un brano ritmico, “Bitterblue”, dove a volte Stevens ‘gioca d’anticipo’. E quasi specularmente, poiché penultimo brano, “Moonshadow” avvicina alla conclusione nello stile di “The Wind”: è nuovamente un brano in Re, dove l’apertura è suonata con un fingerpicking tipico di Stevens, cioè con la fondamentale dell’accordo come ostinato al basso e il tema del brano suonato sul cantino; la mano sinistra rimane fissa sull’accordo, cambiando solo sulla prima corda (così da avere I5, Isus4, I, Isus4…). In chiusura “Peace Train”, aperta per note singole, si caratterizza per la ritmica decisa, tipica di Stevens, e per la chiusura sugli arpeggi.

Dopo Teaser and the Firecat Stevens decise di cambiare nuovamente. La sua nuova vita musicale coincise con una preferenza per le tastiere e, nei testi, in una maggiore consapevolezza di sé sul piano personale: in “Sitting”, primo brano di Catch Bull at Four (1972), Cat sedeva al piano e cantava «Oh I’m on my way I know I am, somewhere not so far from here now». I brani più chitarristici – direttamente parenti dei tre dischi storici – erano “The Boy with the Moon & the Star on His Head”, dello stesso tipo di “The Wind” e “Moonshadow” (in Re con il gioco sul cantino ribattuto e arpeggi sotto la strofa), e “Angelsea” in cui la ritmica delle acustiche, che è un incrocio tra “Rubylove” nelle intenzioni e Centro-Sud America nel gioco ritmico sul semplice I-IV-V in Sol, si alterna a una base più rock. Nei brani più tastieristici Alun Davies continuava a suonare la sua acustica o nylon string (spesso bassa nel missaggio, ad esser sinceri, e più di complemento, come in “Silent Sunlight” dove doppiava una cadenza), a volte solo ritmica (“Can’t Keep It In”, dove Stevens si dava addirittura all’elettrica). La musica di Stevens iniziava nell’album ad adeguarsi, per certi aspetti, al rock progressivo meno interlocutorio: ampie parti strumentali, diversificazione di temi, progressioni di accordi non lineari. L’acustica (o la nylon string) restava protagonista nei momenti più caratteristici, come “O caritas”, cantata in latino e latineggiante (ma con bouzouki), e nella conclusiva “Ruins”, giocata sull’I-IV, dove Stevens è vicino a Van Morrison.
Da questo punto in poi la chitarra diventerà prevalentemente un ricordo: Foreigner (1972) era dominato dalle tastiere e dai synth (Stevens stesso in seguito si stupirà nel ricordare quanti ne avesse suonati) e recuperava influenze della musica nera, alla quale si rifece maggiormente in Buddha and the Chocolate Box (1974): ormai elettrificato, Stevens ricorreva all’acustica solo per arpeggini di supporto e poco altro (“Oh Very Young”, l’introduzione di “Sun/C79”), quasi esclusivamente in funzione ritmica, memore di “Tuesday’s Dead” (l’intro di “Ready”). Per Numbers (1976) si proseguì nella scelta di una produzione a tratti estenuante: il disco risentiva ritmicamente della musica latinoamericana, dava preminenza al ritmo nel gioco di sovrapposizioni, e la chitarra veniva fuori poco, negli arpeggi di “Novim’s Nightmare”, nella ritmica di “Banapple Gas” e nell’introduzione di “Jzero”, grazioso pezzo in tempo ternario. In un’intervista del febbraio 1976 per la rivista francese Rock & Folk, Stevens parlò estensivamente proprio del suo rinnovato interesse per il ritmo, derivato dall’esperienza di vita in Brasile: «Quello che mi è successo è quello che accade oggi al rock: il fascino per i ritmi di un’altra cultura. L’Africa, le Antille, il Terzo Mondo. Non si deve far altro che ascoltare il lavoro di Carlos Santana e del suo gruppo […] Il mondo occidentale dovrebbe imparare dal Terzo Mondo. I ritmi sono come lo scorrere del sangue. La musica rifletterà sempre movimenti umani, nel senso più ampio del termine. E questo è quel che succede: il Terzo Mondo sta arrivando. Perciò non scrivo più ballate nello stile di “Morning Has broken” o “Father and Son”, anche se, come ieri sera, le canto ancora in concerto. […] La solitudine in Brasile mi ha schiarito le idee […] Il mio pubblico deve accettare la mia evoluzione. Per questo motivo Numbers è molto differente dalle mie creazioni precedenti. Il suono è nuovo, e soprattutto l’influenza non è la stessa. Inoltre io sono il produttore, che è in sé una novità considerevole. È anche possibile che in alcuni punti abbia fatto troppo”. In Izitso (1977) l’acustica era limitata agli arpeggini di “Child for a Day”. In Back to Heart (1978), sempre più rock, si segnalava da questo punto di vista soltanto “The Artist”, brano con arpeggi più in evidenza nello strumentale. Cat Stevens era ormai diventato Yusuf Islam ed era pronto a scomparire dalla scena musicale, non considerando più la sua attività in quell’ambiente in accordo con gli insegnamenti della propria religione. Il 22 Novembre 1979, alla Wembley Arena, diede il suo addio al pubblico.
Negli anni duemila, Yusuf Islam decise di tornare a registrare dischi come prima della conversione. Non reputo un caso che sia tornato a farlo con un suono e canzoni più simili a quelle del periodo acustico, a cui – è difficile dire il contrario – la maggior parte del suo pubblico era affezionata. Non è difficile ipotizzare anche un parallelo fra il periodo di chiusura al mondo della musica e il tempo passato in clinica tanti anni prima: Stevens aveva avuto nuovamente tempo per riflettere, prendere la misura delle cose, decidere di che cosa disfarsi, musicalmente e non, e trovare una maggiore definizione, più consona all’evoluzione della sua persona. E questo forse doveva avvenire proprio tramite il riavvicinamento alla chitarra. In An Other Cup (2006) l’acustica era maggiormente ritmica, o di rifinitura insieme al piano, o arpeggiata (“Heaven”, “One Day at a Time”); e quando i due aspetti si univano, venivano fuori pezzi come la splendida “Maybe There’s a World”. Nel disco compariva anche una nuova versione di “I think I See the Light”, stavolta incentrata proprio sulla chitarra e non sul piano. Nel 2009 comparve Roadsinger: i brani erano semplici, l’acustica spesso ritmica e accoppiata alla chitarra elettrica pulita (“World o’ Darkness”, “This Glass World”), ma Stevens tornava ad unire fraseggi in fingerpicking e ritmica come ai bei tempi (“Thinking ’bout You”, “Roadsinger”, “All Kind of Roses”, “Dream On” che nelle misure iniziali sembra citare il vecchio brano degli anni ’60 “L’amour est bleu”), rispolverava l’amore per il blues (“Everytime I dream”) e alludeva esplicitamente al proprio passato (“Be What You Must” era introdotta dalla parte di pianoforte di “Sitting” da Catch Bull at Four). Roadsinger riaffermò come Stevens, ora solo Yusuf come recitava la copertina del disco, fosse ancora un grande, imprescindibile autore di canzoni, al cui magistero guardare quando si imbraccia una chitarra acustica e si scrive una canzone: uno dei più bei brani dell’album, di quella bellezza senza tempo di cui solo i grandi sono capaci, è la semplice eppure da brividi “All Kind of Roses”, di cui è disponibile, sul canale YouTube di Yusuf Islam, una versione solo chitarra e voce.
La musica di Cat Stevens è stata capace di attraversare gli anni, toccando e influenzando persone diversissime e nomi come – a caso, di diversa estrazione musicale – Dolly Parton, Bob Geldof, Dave Mustaine dei Megadeth, Eddie Vedder. La sua vita pubblica come Cat Stevens prima, come Yusuf Islam poi, non è stata facile, soprattutto per via delle incomprensioni e attacchi anche gratuiti (le sue parole sulla fatwa a Salman Rushdie furono del tutto fraintese e, dopo l’11 settembre, gli fu impedito di entrare in America) nonostante si fosse sempre posto come una figura moderata, sempre attiva per il dialogo e la comprensione reciproca, oltre che attivista umanitario ed educatore con le scuole che fondò. In una delle sue vite post-conversione si riavvicinò al suo passato – ironia della sorte, ma forse questo conferma la sua «profonda convinzione che in definitiva ci sia un controllo superiore della vita di ognuno» – proprio attraverso la chitarra quando lesse, piacevolmente stupito, delle origini mediorientali dello strumento a corda. Sarebbe bello se oggi, in un mondo sempre più lacerato da grida, strepiti, mancanza di riflessione e vie di mezzo, le persone si fermassero un attimo e riascoltassero la produzione acustica di Cat Stevens (inclusi quei gioiellini che sono “Don’t Be Shy” e “If You Want to Sing Out, Sing Out” dalla colonna sonora di Harold and Maude), le chitarre forti e gentili ad un tempo, sue e di Alun Davies, e le sue parole piene di gioia, gratitudine e speranza.

«Grazie, grazie. Abbiamo solo una vita. E dobbiamo usarla al meglio. E troverete la strada giusta… e quando avverrà… lo saprete. Perciò spero che voi troviate la strada giusta. Inshallah. Goodbye» (Cat Stevens/Yusuf Islam, Wembley Arena, 1979)

Sergio Staffieri

Le citazioni sono tratte dalle interviste raccolte nel sito www.majicat.com, prezioso archivio gestito da fan, dove sono presenti anche tablature per chitarra proposte dagli iscritti, e da due documentari: puntata su Cat Stevens della serie Behind the Music, VH1 2000, e Yusuf Islam – The artist formerly known as Cat Stevens, a cura di Alan Yentob, BBC 2006.


Chitarra Acustica, 4/2013, pp. 28-35

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