Tom Petty
Le conversazioni con Paul Zollo
di SERGIO STAFFIERI
The secret of a great melody is a secret.
(Dave Brubeck)
Frank Zappa riteneva che il rock journalism avesse a che fare con «persone che non sanno scrivere, che intervistano persone che non sanno parlare, per persone che non sanno leggere». Era un’estremizzazione effettivamente bella ed efficace, una provocazione non del tutto lontana dal falso e, in alcuni casi, purtroppo condivisibile ancora oggi. Il giornalismo musicale, per fortuna, da allora ha fatto passi da gigante e ha spesso unito i suoi sforzi a quelli degli studi accademici: tutto ci aiuta nella maggiore comprensione e nel migliore apprezzamento del fenomeno musicale.
Il libro di Paul Zollo di cui ci accingiamo a parlare, Conversations With Tom Petty, contraddice quindi felicemente l’assunto di Zappa: l’autore è un musicista, scrittore, giornalista musicale e fotografo che ha sempre concentrato i suoi interessi sul songwriting (è attualmente senior editor di American Songwriter Magazine). Il protagonista del libro, invece, è Tom Petty, e già il nome dovrebbe bastare. Petty è stato uno dei massimi esempi dell’importanza, anche nel mondo della canzone, del ‘praticantato’, dello studiare i meccanismi di scrittura dei brani – anche quelli più semplici – applicando il processo di reverse engineering alla canzone (smontandola e rimontandola, come se si trattasse di un qualunque oggetto commerciale); e ha provato come tali meccanismi siano alla base di una formazione necessaria a una carriera di successo. Il tutto senza togliere il minimo ‘romanticismo’ al momento dell’ascolto, all’apprezzamento dei brani, all’istante in cui l’ispirazione arriva da non si sa dove. Tom Petty era l’intervistato ideale per Zollo, anche a voler dar retta a Zappa: Petty non aveva ricevuto alcuna istruzione musicale, non aveva alle spalle una carriera scolastica di rilievo e in un’altra occasione, intervistato da Bill Flanagan, aveva detto come lo spaventasse che ciò di cui si occupava – cioè le canzoni – diventasse un discorso intellettuale: «Io non leggo poesie. Non ho mai pensato di essere un poeta». D’altra parte, fu da subito e fu sempre uno studente-studioso del songcraft, dell’arte – ma soprattutto del ‘mestiere’ – dello scrivere canzoni.
Questo Conversations With Tom Petty, pubblicato da Omnibus Press, è una expanded edition del testo uscito nel 2005: c’è un’intervista a Dana Petty successiva all’improvvisa morte di Tom nel 2017, un’introduzione alla nuova edizione, la discografia e videografia completa di Petty con gli Heartbreakers e non, e varie foto tra cui una, splendida, di Petty con la sua Gibson Dove, l’acustica su cui scrisse tutte le sue canzoni dal ’70 al ’91; e un’altra, sempre con un’acustica Gibson baciata dal sole presumibilmente in veranda.
Il libro è strutturato in tre parti: Life (quindici capitoli), Songs (un lunghissimo capitolo dove vengono presi in esame i suoi album) e Additional Interviews, Articles and Reviews. In tutto quasi quattrocento pagine, che costituiscono un’enciclopedia scritta in base alla viva voce del protagonista, su Petty e il suo mondo. E ‘mondo’ non è parola inappropriata, perché si parla di luoghi su luoghi a partire da Gainsville in Florida, e persone su persone: gli Heartbreakers, ovvio, ma anche Don Felder, che diede a Tom lezioni di chitarra e poi si unì agli Eagles, e chiaramente Dylan con cui Petty e la sua band fecero un tour nell’86, e ancora George Harrison con cui Dylan e Petty e Jeff Lynne e Roy Orbison diedero vita ai Traveling Wilburys. E ovviamente canzoni su canzoni, ‘piccoli mondi’ su ‘piccoli mondi’.
Le conversazioni – cioè quello che tutte le buone interviste dovrebbero essere – vertono tutte sull’aspetto creativo e della performance, sulle collaborazioni e sulle influenze di Petty. E lui è disponibilissimo a parlare di tutto ciò, ogni volta eccitato come un bambino, pronto a spendere buone parole per tutti: anche per le Bangles, con cui collaborò, nonostante la loro musica fosse vista da molti come dispensable pop, cioè pop di cui poter fare a meno. E le sue valutazioni ci aiutano a inquadrare meglio gli altri artisti; di Dylan arriva a dire: «Se devi suonare con Bob, è un po’ come suonare con un jazzista», per la sua capacità di improvvisare, nel suo contesto musicale di riferimento. E altrove ne narra le sterminate conoscenze musicali: «Sa un sacco in fatto di musica […] Sea shanties. Musica folk. Conosce davvero tante folk songs, molto R&B degli inizi, canzoni piuttosto oscure che non conoscevo. Alcuni dei miei ricordi più belli sono legati a prove dove Bob magari iniziava a suonare alcune canzoni che non conoscevamo, e si scopriva qualcosa di nuovo». E altrove Dylan è «a riddle wrapped in an enigma» (‘un rebus avvolto in un enigma’): l’espressione rimanda – pure se scherzosamente – alle parole che aveva utilizzato con acume Winston Churchill a proposito della Russia: «It is a riddle, wrapped in a mistery, inside an enigma» (‘È un rebus, avvolto in un mistero, dentro un enigma’). Dylan rimane il più grande, quello che ha influenzato tutti senza mezze misure: «He influenced everybody’s songwriting. There’s no way around it». Alla domanda di Zollo se anche Petty avesse iniziato a scrivere canzoni lunghe come “Like a Rolling Stone”, Petty rispose di no, chiarendo come l’influenza di Dylan avesse a che fare con il modo di scrivere di Dylan e gli argomenti scelti, che non fossero solo canzoni d’amore: «All’improvviso capivi che potevi scrivere di altre cose». Qualcosa di simile disse in proposito Joni Mitchell: «La prima volta che ho sentito Dylan cantare ‘You got a lotta nerve’ [il primo verso di “Positively 4th Street”] ho pensato: ‘Evviva, la canzone popolare americana è cresciuta, ha tutte le strade aperte di fronte a sé. Adesso è legittimo scrivere su uno qualsiasi degli argomenti che tratta anche la letteratura’». Come molti all’epoca, tra l’altro, Petty ascoltò Dylan attraverso la lente dei Byrds, altra influenza importante per Tom e gli Heartbreakers. E va ricordato come McGuinn scelse di incidere una sua versione di “American Girl” di Petty per un suo album solista, già l’anno dopo che questa era comparsa nell’esordio degli Heartbreakers. E quando nel 1992 ci fu al Madison Square Garden il 30th Anniversary Concert Celebration in onore di Dylan, furono proprio Petty e gli Heartbreakers ad accompagnare McGuinn per “Mr. Tambourine Man”. Addirittura, agli inizi Petty e gli altri volevano che il gruppo fosse un incrocio di Byrds e Stones («What could be better than that?»), perché avevano anche influenze diverse, ma l’incrocio delle due sensibilità – cioè R&B e rock’n’roll da una parte e «a nice harmony song sense» dall’altra – era il modo migliore di sintetizzare quel che avevano in mente.
Per chi ancora ritenga uno come Jeff Lynne un personaggio ‘leggero’ e ‘commerciale’ del mondo della canzone (Lowell George dei Leattle Feat fece un tour con gli ELO di Lynne e fu pesantissimo nel giudicarli), è possibile qui accorgersi invece della meritata stima accordatagli da Petty e da nomi come Orbison, Harrison e Dylan: sia come musicista che come produttore, rivelatosi necessario alla buona riuscita dei pezzi. Per “Free Fallin’”, ad esempio, Jeff Lynne diede alcune dritte fondamentali: quando Petty gli suonò il giro di accordi che aveva composto, Lynne gli disse di togliere l’ultimo accordo e la sequenza musicale ne risultò più efficace; quando Petty iniziò a improvvisare il testo e arrivò al ritornello senza sapere che dire, fu Lynne a suggerire, aprendo bocca e dicendole come niente fosse, le parole che divennero il titolo; e poi gli chiese di eseguire il brano all’ottava superiore: piccoli accorgimenti all’apparenza, che cambiarono il destino di una canzone scritta, è bene dirlo, nel giro di una mezz’ora. Nel caso di “Yer So Bad” fu lui a suggerire, quando Petty si ritrovò fermo al turnarond, di inserire un MI minore e questo sbloccò la situazione; a conferma del ruolo ‘maieutico’ che aveva con Petty e non solo.
Durante lo stesso periodo, George Harrison divenne un amico intimo di Petty, e anche lui dava giudizi spontanei e perfino impietosi, anche quando poi cantava nei cori. Petty lo racconta ridendo (e ho riso anch’io leggendo e immaginando la scena); ecco le sue parole a proposito di “I Won’t Back Down”: «George disse “Che diavolo è ‘I’m standing on the edge of the world’? Di sicuro si può trovare qualcosa di meglio […] ‘There ain’t no easy way out’ […] Questa frase è stupida”»; e invece poi la canzone ebbe successo anche per il modo in cui il testo in quel modo parlava alle persone.
Proprio George Harrison ‘compare’ spesso nel libro: Petty ne divenne un vero amico, e fu anche un suo ‘studente’; dev’esser stato fantastico poter imparare direttamente da George: «Era davvero un grande con gli accordi. Li conosceva bene e conosceva diversi modi in cui suonarli. È proprio questo che ho preso da lui. Suonavamo in maniera rilassata ed era molto bravo a mostrarmi le cose: “Oh, sai, c’è un modo più semplice di fare questa cosa, oppure puoi suonare quell’accordo in un altro modo”». Viene fuori, anche dalla sua testimonianza, un Harrison poco conosciuto: sappiamo come il blues non fosse certo in cima alla sua lista, eppure Petty racconta che una sera, sul tardi a casa sua, iniziarono a suonare e Harrison fece un blues eccezionale, che non gli aveva mai sentito fare. Gli chiese come mai non l’avesse mai fatto, aggiungendo che non aveva idea che ne fosse capace, e George rispose secco: «Oh, that’s Eric’s things» riferendosi ovviamente a Clapton.
Petty potrà anche non aver studiato musica e potrà non saper parlare sempre in termini tecnici, ma questo non nega la sua competenza e non annulla il suo acume. Arrivati alla canzone “Too Good to Be True”, Zollo gli chiede ragguagli sull’accordo che caratterizza la finta chiusa prima che la canzone ricominci, e Petty risponde: «Sì, è uno dei miei mystery chords, di cui Jeff dice: “Non sapevo neppure che quell’accordo esistesse” [risate]. E se fossi un bravo musicista, probabilmente non l’avrei usato. A volte metto le mani sulle corde, e se suona bene, uso quello che viene fuori. Uso molte variazioni sugli accordi. Ho il mio modo di farle e di suonarle, e di disporre i voicing degli accordi. Che è molto importante, se vuoi fare cose tue. C’è gente che suona le mie canzoni, ma non suona i voicing corretti degli accordi. E i voicing sono l’essenza di tutto».
Ci sono poi osservazioni pertinenti sul diverso supporto di riproduzione. Ad esempio, con gli LP c’era il limite temporale dei due lati: l’inizio, l’interruzione a metà disco e la seconda parte, e questo portava anche a ragionare sui pezzi da inserire; per non parlare della copertina e tutto il resto, che erano parte dell’esperienza di ascolto. Leggiamo delle sue preferenze nella registrazione della voce: no al riverbero, sì a tape delay, compressore e limiter; microfoni utilizzati: AKG C12 e a volte Neumann U 87. Ogni brano è ricordato e analizzato, inquadrato in un sistema di relazioni con la musica presente e passata; si veda “Apartment Song”, scritta per Southern Accents e uscita poi su Full Moon Fever, di cui dice: «È la nostra piccola cosa in stile Buddy Holly». Holly fu un’influenza fondamentale: a più riprese Petty parla dell’importanza dei limiti e della semplicità, dello sforzarsi a trovare qualcosa che funzioni anche con le cose più semplici. In proposito diceva infatti: «Ho letto che la mia musica è semplice. Non è semplice. Ci sono molte sfumature, luci e ombre». E in “Turn This Car Around” è l’accordo di minore settima con la quarta a dare un’atmosfera particolare.
Troviamo inoltre opinioni sulle migliori tonalità per la chitarra (Petty dà una risposta basata sulla praticità: «Oh, ce ne sono molte. A volte trovarsi in tonalità in bemolle sulla chitarra può essere insidioso, ma noi usiamo capotasti mobili»), sul marketing e le pop star e i TV show, sull’American dream di cui il rock’n’roll è l’incarnazione, sui tipi di canzone che si possono scrivere e che lui ha scritto, sul far entrare «un film in tre minuti» e sull’importanza dell’ambiguità nei testi: «permette all’ascoltatore di creare la propria idea di ciò che avviene».
Ancora, Petty parla dell’ukulele, con cui inizia “The Man Who Loves Women”, strumento che ci riporta inevitabilmente a George Harrison: «L’ho scritta su un ukulele che mi diede lui, in effetti. Mi piacciono gli accordi di quella canzone. Me ne sono uscito con molti accordi efficaci, che non credo avrei suonato sulla chitarra. George mi insegnò a suonare l’ukulele, e mi insegnò molti cool chords e le loro inversioni sullo strumento»; «non puoi esser triste e suonare l’ukulele [risate], l’ukulele fa nascere sempre un sorriso nella stanza». Su YouTube si può vedere un video tratto dal documentario Living in the Material World di Martin Scorsese: Petty racconta ridendo proprio di quando Harrison gli regalò l’ukulele; e la sua mimica è imperdibile, perché George non solo gliene regalò uno per iniziare ma decise, prima di andare via (Petty ricorda che avevano suonato talmente tanto che a quel punto gli faceva male il polso), di lasciargliene altri: «Quando se ne stava andando mi sono avvicinato alla macchina e lui ha detto: “Well, wait… voglio lasciare qui degli ukulele”. Me ne aveva già dato uno, così gli dissi: “Be’, ho questo”. E lui “No, potrebbero servircene di più!” [risate di Petty] E aprì il bagagliaio dove aveva un sacco di ukulele, penso ne abbia lasciati quattro da me. Disse: “Well, non si sa mai quando potremmo averne bisogno, perché non tutti se ne portano uno dietro!”».
Riscopriamo, affianco a Petty, uno come Mike Campbell, oggi nell’ennesima incarnazione dei Fleetwood Mac, importantissimo: di lui George Harrison amava il modo di suonare lo slide e lo considerava secondo solo a Ry Cooder. In proposito vale la pena ricordare quel che diceva Clapton di Harrison come suonatore di slide, che cioè non fosse ‘invischiato’ in stilemi blues, ma che usasse le scale per trovare melodie autonome, perché Petty offre di Campbell un giudizio simile: «È piuttosto come una voce. Questo attiene completamente al vibrato, e a come fai uscire le note dalla chitarra con questo pezzo di metallo o di vetro […] Lui ha un vibrato perfetto, e un’intonazione perfetta. Tutto dipende dall’intonazione». Campbell scrisse con Petty molti brani, e fu il suo ‘braccio armato’ alle corde di ogni tipo: su “All the Wrong Reasons”, per esempio, Campbell suonò il riff al bouzouki. Mi viene in mente un episodio proprio a proposito di Campbell: uno dei brani più belli di Don Henley dopo gli Eagles, “The Boys of Summer”, fu frutto della collaborazione di Campbell alle musiche, che vennero prima, e di Henley al testo. E la cosa sorprendente, stando a quanto raccontato più volte da Henley, è che il brano gli fu presentato da Campbell dopo essere stato scartato da Petty, che – una volta interrogato in merito – disse di non ricordare di aver mai scartato un brano simile.
La lettura del libro è un invito a riscoprire tanto cantautorato acustico: “Wildflowers”, in apertura dell’album omonimo del 1994; “Don’t Fade Me On”, suonata con due acustiche; “King’s Highway”, dal vivo con Campbell al mandolino (da Playback, boxed set del 1995); “You Don’t Know What It Feels”, “Alright for Now” («Fu scritta a tarda notte, con i miei bambini in mente. Jeff non era lì. Era andato via, e la facemmo io e Mike […] Suonammo in fingerpicking, dal vivo, noi due, semplicemente suonando insieme») e non solo: brani stupendi che sono a pieno diritto, oggi, classici americani.
Se si vuole un corso intensivo sulla scrittura di canzoni e sul loro arrangiamento, questo libro è perfetto perché ne indaga tutti gli aspetti: vale per i testi e per le musiche. Leggiamo Petty dire «I don’t go for the Nashville way», riferendosi a canzoni scritte a partire da un titolo ad effetto («some clever line for the title»), nel senso che non si lasciava dettare tutto solo da un titolo, come se fosse un compitino. Anzi, apparteneva a quella schiera di autori che si fanno – in senso buono – continuamente i fatti degli altri: «Sono il tipo di persona che siede al ristorante e ascolta quello che dicono tutte le altre persone intorno». E soprattutto, prendeva appunti di continuo: «Prendo appunti. Magari la notte salto giù dal letto e scrivo alcune cose. A volte, in quei brevi momenti prima di addormentarti, la tua mente va in un certo posto e ti vengono un mucchio di idee. Perciò tengo un taccuino vicino al letto e lo prendo di continuo per prendere appunti». È come se – pur senza avere studiato, come da lui ricordato –avesse applicato quello che dovrebbe essere un principio aureo espresso dalla massima latina nulla dies sine linea. E non si faceva problemi a trovare ispirazione anche in un loop, purché fosse un loop ‘organico’: a proposito di “No Second Thoughts”, riferisce che «quella traccia fu costruita su un loop. […] Avevamo un mucchio di percussioni, tutti si misero a battere sulle congas e qualsiasi cosa fosse a tiro. Forse anche su una chitarra acustica. Ne facemmo un loop e lo mettemmo in riproduzione». Notiamo qui, di passaggio, come un altro gruppo di ambito ‘Americana’ (quindi ‘insospettabile’ quanto ad apprezzamenti su loop e simili) che lavorò in questo modo furono i Little Village, i quali costruirono una buona metà delle canzoni del loro disco a partire da loop preparati da Jim Keltner.
Dal punto di vista delle delle collaborazioni in ambito ‘Americana’, va ricordato che Petty lavorò anche con un altro gigante, cioè Johnny Cash: l’ultimo, fruttuoso periodo di registrazioni del man in black, sotto la regia di Rick Rubin, fu una serie di dischi acustici (American Recordings) che andrebbero riscoperti da ogni aspirante songwriter. Fu proprio Petty l’artefice del tutto, perché Rubin ragionava se far firmare o no un contratto a Cash e chiese a Petty cosa ne pensasse; e lui rispose: «Stai scherzando?». Nel secondo volume, Unchained, Tom partecipò coi suoi fidi compagni: e risaltano “Sea of Heartbreak”, vecchio brano cantato da Don Gibson, e la sua “Southern Accents”. Nel terzo volume, Solitary Man, comparve poi “I Won’t Back Down”. Fra le foto presenti nel libro ce n’è anche una stupenda di quei giorni, dove Petty è seduto a terra e guarda sorridendo beato Carl Perkins – spuntato dal nulla a fare una visita – seduto davanti a lui mentre suona, con Cash vicino. Unchained vinse il Grammy nella categoria Best Country Album of the Year 1998, e il commento tipico e divertito di Petty, quando lo ricorda, è: «il che non è niente male per un gruppo di rock’n’roll». È proprio questo uno dei punti di forza di Tom Petty: l’aver amato e saputo inglobare le varie influenze della musica americana, spesso andando sempre più indietro nel tempo anche quando si trattava di musicisti dal successo non più stellare, come poteva essere al momento quello dei suoi Heartbreakers, e soprattutto mentre la stampa cercava di capire se questi ultimi fossero rock, rock’n’roll, new wave, alt-folk o chissà che altro ancora. E intanto, magari, Petty e gli Heartbreakers facevano una serie di venti date al Fillmore di San Francisco invitando ad aprire gruppi e nomi come Carl Perkins, John Lee Hooker, Roger McGuinn.
Le influenze erano molteplici, così come gli stili delle canzoni, ma questo non ha mai comportato che le cose diventassero troppo sofisticate, anzi. Zollo paragona Petty a Woody Guthrie: a master of simplicity. Parla proprio di the genius of simplicity: una semplicità non casuale, ma raffinata (honed) e sviluppata nel corso degli anni. Individua i punti forti della sua scrittura nel sapere rendersi conto dell’equilibrio necessario nella costruzione delle canzoni, nel bilanciare strofe e ponti e ritornelli: le canzoni dovevano essere, secondo Petty, «light – but not lightweight». Zollo chiama quella di Petty folk wisdom, ‘saggezza folk’, e questo ci dovrebbe ancora una volta far pensare. Per Petty, che pure conosceva i ‘trucchi’ del mestiere, il ‘mestiere’ (craft) importava quando arricchiva una canzone, non quando usato per sé stesso: la sua ambizione, al di là del non scrivere per impressionare altri musicisti, era creare «something timeless», che suonasse grande oggi e ancor meglio domani.
Petty era un grande melodista, e aveva un cuore rock’n’roll. Da piccolo mandava a memoria le nursery rhymes, poi si abbeverò a tutti i rivoli del grande fiume della canzone americana e riconobbe, come altri americani, agli artisti della British invasion di avergli fatto riscoprire le cose di ‘casa sua’. Era un intrattenitore a tutto tondo, e Zollo fa riferimento anche a quando fu ospite con Robin Williams dal comico e conduttore televisivo Jay Leno: «He was a treasured American entertainer». Scriveva per ‘intrattenere’, ma anche per far pensare ed essere vicino alla gente. Perché, come ricorda Zollo, per lui l’American dream si era realizzato, ma sapeva bene che così non era avvenuto per milioni di altri; e per questo scrisse “American Dream Plan B”. Nel ricordare quel che l’aveva colpito di Slim Harpo e Muddy Waters, Tom Petty parlava della loro onestà e purezza: questa era la cosa che cercava con la sua musica, anche perché – dice sempre Zollo – per lui le onde radio erano sacre, come lo erano state per Woody e per Dylan prima di lui. E quindi non dovevano essere sprecate trasmettendo musica ‘falsa’.
«Il mondo non ha bisogno di altre canzoni» disse Bob Dylan una volta proprio a Zollo, ma poi continuò: «A meno che qualcuno non si presenti con un cuore puro, e abbia qualcosa da dire. That’s a different story». Tom Petty apparteneva a questa categoria, e questo libro ce lo fa apprezzare e rimpiangere una volta di più.