Silenzio, si fa musica! Ecco cosa si leggeva nei teatri o negli studi di registrazione.
La musica è sacra e quando inizia a generarsi necessita del massimo silenzio. Ricordo di aver visto un concerto di Keith Jarrett in solo alla Carnegie Hall di New York. Il manager dell’artista si presentò sul palco raccomandando il massimo silenzio: Keith voleva improvvisare, un solo starnuto o colpo di tosse durante l’esibizione l’avrebbe costretto ad abbandonare il palco e annullare il concerto.
La musica si portava appresso quell’aura solenne di misticismo dei grandi compositori del passato, trasformandosi in meditazione e culto.
John Cage esaltò e sollecitò il silenzio in una delle sue più celebri composizioni. Provate ad ascoltare – si fa per dire – 4’33”, per capire di cosa parlo. Avanguardia, sì, ma con un approccio scientifico che aiuta a comprendere la differenza tra suono e silenzio.
Ho iniziato a suonare nei teatri, dove il silenzio si trasformava al massimo in brusio. Quando il palco si illuminava, ti assaliva la sensazione di quel profondo silenzio, che creava aspettativa nel pubblico e angoscia nel musicista.
Ho suonato anche in piccoli club come il Folkstudio e il Big Mama a Roma. Lì, soprattutto vicino al bancone del bar, il silenzio si trasformava in mormorio, ma tutti quelli che erano seduti ad ascoltare il concerto non fiatavano. La concentrazione era massima e la soddisfazione nel Fare Musica era grande. La gioia di suonare, la voglia di comunicare erano l’energia trainante di questa passione.
Ora, i tavolini sono sempre più vicini al palco, gli spazi più ristretti. Il pubblico, immerso nelle proprie conversazioni, ‘approfitta’ del silenzio per applaudire. Non sa cosa hai suonato, ma se ti fermi vuol dire che è arrivato il momento degli applausi. E quando ricominci, anche loro riprendono a chiacchierare, perché la musica è sottofondo, accompagnamento, atmosfera. Nessuna differenza tra un ristorante e un supermercato: la musica ti arriva, la senti, ogni tanto ti fermi e dici: «Interessante!» Ma solo perché hai riconosciuto una nota, una melodia familiare, foss’anche semplicemente una breve citazione del “Ballo del qua qua”.
D’altra parte, nei locali, il business non è nella musica, ma nelle bevande e nel cibo. Il proprietario del locale cerca di ottimizzare il suo investimento, altrimenti come potrebbe darti quel misero cachet che ti ha promesso?
Ora, non è importante il quanto, ma il come. Posso esibirmi anche gratis, anzi lo faccio spesso, perché mi piace suonare. Lo faccio soprattutto con gli amici. Ma abbandono quando discutere diventa più importante che ascoltare.
In effetti, non tutti la pensano come me e la concorrenza al ribasso inizia a diventare pericolosa. Pur di esibirsi, frotte di musicisti vendono la loro arte, le loro fatiche i loro studi per pochi spicci. Solo per poter pubblicare su Facebook la data del loro nuovo concerto. L’obiezione potrebbe essere che con quei pochi spicci ci campano e… ‘se questo è il mercato bisogna adattarsi’.
Giusto! Infatti la critica non è rivolta ai musicisti, che possono avere ragione, anche se sotto certi minimi non bisognerebbe mai accettare di suonare. È il sistema che non va bene, che non tutela la musica e la professione del musicista, ma la trasforma in una sorta di puro intrattenimento. Come mettere nel locale la TV e proiettare la partita dei mondiali di calcio.
Allora cosa si può fare? Non lo so. Forse avere un po’ di coraggio in più. Osare, crederci, pretendere, tentare di ridare dignità a un’arte che nel tempo ha perso il suo fascino, diventando prima professione, poi mestiere, infine solo passione o secondo lavoro.
L’arte è una cosa meravigliosa, è creatività, fantasia, follia, identità di popolo, cultura. Va salvaguardata e tutelata, proteggendo innanzitutto i protagonisti che la generano, permettendo loro di vivere e poterla esprimere con dignità.
Buon fingerpicking!
Reno Brandoni