L’ascensore
di RENO BRANDONI
Da tempo vivo lontano dalla città. Cerco di avvicinarmi il più possibile alla natura, prima la campagna e ora il mare. Così, parallelamente, ho potuto anche dimenticare l’esistenza e l’uso dell’ascensore, che permette di raggiungere il piano desiderato evitando le scale…
Capisco, non è un’informazione che possa essere classificata come ‘essenziale’, e neanche come ‘secondaria’. È solo un fatto che risulterebbe indifferente ai più, se non fosse che l’uso dell’ascensore ti mette a confronto con un oggetto spesso trascurato: lo specchio.
Purtroppo l’ascensore, che per necessità ho dovuto frequentare in questi ultimi giorni, era ben provvisto di questo insulso accessorio. Molto utile a chi, vanitosamente, si dà gli ultimi ritocchi prima di uscire di casa; o a chi, al ritorno da una convulsa giornata di lavoro, controlla il coefficiente ‘occhiaie’ prima di rincasare. Ma totalmente indifferente al sottoscritto.
Va bene, lo so, ci sono altri usi forse meno virtuosi, ma essenziali, che lo specchio può permettere in quei pochi secondi di fruizione mobile. Tuttavia, dovrei entrare nei particolari e correrei il rischio di andare fuori tema, solo per stuzzicare la vostra parte più morbosa e incrementare i miei like, di cui momentaneamente posso fare a meno.
Nel mio caso, l’incontro con l’oggetto è quanto meno singolare: non sono abituato a specchiarmi, se non in quei rari momenti mattutini in cui lo sguardo verso lo specchio è casuale e distratto. Per cui, vi devo confessare un totale disinteresse per il confronto giornaliero con il tempo che passa…
L’ascensore invece ti blocca: anche se per pochi secondi, t’imprigiona. E il suo maledetto specchio ti impone un incontro che, nel mio caso, avviene con un perfetto estraneo. Quando capita di essere solo nella cabina, saluto quasi sempre quell’immagine con un distaccato «Salve». E ricevo medesima indifferenza nella risposta. Quello che ho di fronte è uno sconosciuto!
L’immagine che ho di me, nella mia testa, è quella di un ragazzino, capelli lunghi e barba, che smania per intraprendere la sua strada. Incurante degli errori, crede nell’entusiasmo e affronta tutto, forse, con eccessivo trasporto. Quello che vedo nello specchio è un attempato signore, un po’ sovrappeso, con pochi capelli, stanco e diffidente. Lo guardo prima con ironia, deridendolo per il suo stato, poi con un po’ di tenerezza: mi ricorda mio padre, che aveva la sua età quando mi ha lasciato. Mi faccio coraggio, provo a scambiare qualche confidenza e cerco di rasserenarlo per indurlo a un dialogo. Il tutto avviene in silenzio, solo per mezzo di qualche eloquente occhiata. Non c’è nessun affiatamento, eppure lo vedo spesso, sempre, ogni volta che esco di casa e prendo quel benedetto coso che mi porta su e giù per il palazzo. Il suo mutismo, nonostante i miei sorrisi, ricambiati più per dovere che per piacere, mi lascia l’amaro in bocca, limitando ogni mia ulteriore iniziativa. Io sono pieno di vita, di energia, coltivo ancora tanti progetti, tante cose da fare, tanti libri da scrivere e tanta musica da suonare. Quel vecchio sembra non abbia più nulla, o peggio, sembra che tutto quello che ha gli basti.
Decido così, in un mattino milanese in cui il freddo mi fa rimpiangere e desiderare sempre di più la mia isola, che eviterò l’ascensore e userò le scale per sfuggire a quell’incontro, che mi procura sensazioni così angoscianti. Inizio allora a salire le scale in velocità, saltando i gradini prima a gruppi di quattro, poi quasi subito rallentando il ritmo e affrontandoli due alla volta. Infine, mi appoggio alla ringhiera e proseguo la salita trascinandomi a fatica. Sono stanco ma soddisfatto.
Quando finalmente arrivo sul pianerottolo, mi complimento con me stesso, ma sapevo di potercela fare. Prima di procedere verso casa, passo davanti alla porta dell’ascensore, che è ancora fermo al pianterreno. Sorrido, penso al vecchio signore chiuso lì dentro. E, compiuto il gesto dell’ombrello, mi faccio una promessa: io non diventerò mai come lui.
Buon fingerpicking!