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L’America andata e ritorno – Intervista a Beppe Gambetta e Federica Calvino Prina

(di Andrea Carpi / foto di Michael Schlüter e Giorgio Scarfì) Com’è ormai consuetudine in occasione della Acoustic Night, con Beppe Gambetta e la moglie Federica Calvino Prina, che segue costantemente il coordinamento e la produzione delle attività di Beppe, ci incontriamo la mattina dopo il concerto nel salone dell’albergo, per fare il punto della situazione dell’anno che è trascorso. Questa volta avevamo innanzitutto da sviscerare il nuovo album di Beppe, per poi commentare a caldo l’andamento della nuova edizione della manifestazione, sullo sfondo di una crisi italiana dai segni sempre più evidenti.

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John Weingart, nelle note introduttive a The American Album, scrive che «l’intero album si sviluppa intorno a un concetto. Mentre ogni brano è chiaramente magnifico e capace di stupire da solo, l’insieme è in qualche modo anche più della somma delle sue parti». Qual è il concetto di questo album?
Beppe: Il concetto è innanzitutto di concentrarmi sulla chitarra americana, senza altri strumenti che sviluppano l’arrangiamento, esplorando tutte le possibili vie espressive che la chitarra acustica può prendere in questo campo. Quindi abbiamo la composizione di nuovi brani ispirati all’America, il revival di cose dimenticate, la ricerca di cose che provengono dal passato e che meritano di essere riportate in vita; e poi il tentativo di aprire alla chitarra nuovi repertori, secondo una consuetudine che risale a Doc Watson. Così troviamo per esempio “Nashville Blues”, un brano da banjo di Earl Scruggs che ho riportato sulla chitarra, e c’è la “Reel de Pointe-Au-Pic”, un pezzo della tradizione violinistica canadese che non era mai stato suonato con la chitarra. Inoltre, attraverso gli arrangiamenti, ho cercato di dare una veste nuova a brani ascoltati tantissime altre volte, come la canzone “You Are My Sunshine”, che non dico che è per l’America come “’O sole mio” per l’Italia, ma comunque è uno stereotipo del quale ho cercato di dare una versione strumentale diversa. E poi il tributo ai padri, sempre con uno sguardo proiettato al futuro, cercando di inventare nuove tecniche come in “Chipmunk”, dove ho messo insieme alcuni passaggi particolari che non penso siano mai stati suonati in questo modo; però al tempo stesso guardando a chi questa musica l’ha inventata e ricordando il legame con il passato, che secondo me è una delle cose più belle di questo tipo di musica e di questa parte della nicchia indipendente. Insomma, è come se fossi stato un piccolo Sergio Leone, che interpreta a modo suo una cosa tipica americana. E adesso sarà interessante vedere le reazioni. Perché in tutti gli album precedenti c’erano concetti diversi di contaminazione, fusione, ricerca sulle musiche europee, invece questo disco è tutto di musica americana, anche in conseguenza del fatto che stiamo facendo l’esperienza di provare a vivere più tempo laggiù, e vogliamo vedere cosa dice il pubblico americano del mio gusto nell’interpretare profondamente la sua musica.

Weingart conduce da più di trent’anni lo show radiofonico Music You Can’t Hear on the Radio, che è un po’ quello che noi in Italia pensiamo, cioè che alla radio e alla televisione non passano mai la musica che ci piace; e magari immaginiamo che in Nordamerica è diverso. Cosa vuol dire lui con questo titolo? Qual è la musica che non si riesce a sentire alla radio, in America?
B.: È interessante la sua storia, lui è proprio un musicologo, uno studioso. E il titolo della sua trasmissione proviene dalla battuta di un vecchio disco di musica old-time di Gid Tanner and the Skillet Lickers. In questa trasmissione è molto attento anche all’aspetto sociale e politico, è un grande seguace del movimento di folk revival più autentico e del legame che c’è tra l’uso della musica acustica e la speranza in un mondo migliore. Questo legame c’è sempre stato ed effettivamente contrasta con quello che di solito la gente pensa della musica country commerciale. Weingart è uno dei maggiori seguaci del pensiero di Pete Seeger, di Alan Lomax.

Infatti è anche direttore associato dell’Eagleton Institute of Politics alla Rutgers University del New Jersey…
B.: Sì, è un personaggio veramente positivo, con una visione della vita legata a un’idea di miglioramento della società attraverso la musica. E in effetti l’artista deve essere sempre un sognatore, che prova a diversi livelli a dare un segnale, che deve sempre avere una visione positiva e migliore, anche legata a un’utopia, secondo me. Perché “Imagine” l’ha scritta John Lennon… non Gasparri! [risate]

Certo, ma torniamo al disco… Bene o male, tu sei sempre stato legato alla musica americana fin dall’inizio. Poi c’è stato tutto un periodo in cui hai dato vita a ricerche sui rapporti con le musiche europee. Quindi questa è una seconda puntata del tuo rapporto con l’America, che evidentemente è legata anche al fatto di averci preso una casa. E personalmente ci vedo un approccio nel quale emergono elementi nuovi e diversi: in particolare mi ha colpito una presenza più massiccia del modo minore, che forse ha qualcosa di più romantico, di più europeo… 
B.: Sì, come dicevo prima, l’idea era anche quella di rivolgermi al pubblico americano dei flatpicker e proporre delle aperture mentali. Perché è strano, il loro mondo è chiusissimo: parlano di plettri, di legni, si tengono stretti ai loro trecento standard, che diventano sempre più veloci, ma sono sempre quegli stessi trecento standard appalachiani, a cavallo fra tradizione e jazz, che vengono continuamente rimuginati. E le giovani generazioni certamente diventano sempre più brave, ma… quello che voglio dire io, è che c’è anche la poesia, c’è anche la composizione: il flatpicking dovrebbe andare avanti, rendendosi conto appunto che non esiste solo il filone appalachiano, ma esistono dei filoni di fiddle tunes e di altra musica, che può essere trasportata sulla chitarra, di grandezza musicale immensa. E quello franco-canadese, in particolare, è uno dei filoni più ricchi, ci sono delle melodie incredibili. Quindi vorrei dire ai flatpicker: «Ragazzi, quando fate i vostri dischi che propongono sempre i soliti pezzi, i soliti ‘showcase’ di hot licks, dovreste pensare che questa musica può andare avanti, aprirsi». È una grande gioia, appunto, interpretare con il flatpicking una polka canadese. È per questo che ho fatto The American Album

Tornando alla presenza di brani in minore, per esempio, anche “Nashville Blues” di Scruggs lo è, così come “The Nine Years Waltz” di Norman Blake, che ha un andamento molto europeo…
B.: Sì, anche queste scelte artistiche hanno un loro significato: chi fa musica deve sempre cercare brani che sono stati dimenticati e che hanno bisogno di ritrovare una loro vita. E questo brano di Blake è incredibile, per diversi motivi. Tra parentesi, lui l’aveva scritto per la sua prima moglie e poi ha smesso di suonarlo, proprio in conseguenza purtroppo del divorzio. Ritrovare questo vecchio brano è stato parte delle mie ricerche, e il fatto di suonare in minore è un’altra espressività del flatpicking, che è abbastanza poco usata. Forse perché chi suona flatpicking di rado cerca la poesia: tra cercare un hot lick e ascoltare, ascoltare musica finché non trovi una melodia che entra nel cuore della gente, di solito i flatpicker preferiscono suonare solo per correre. Mentre bisogna anche riuscire a fermarsi e ascoltare musica finché non si trova qualcosa che abbia una poesia alta e particolare.

Un altro esempio curioso secondo me è “Chipmunk”, dedicato a uno scoiattolo in visita alla vostra casa, che mi è parso una sorta di “Volo del calabrone” applicato a quest’altro animaletto…
B.: Sì, è vero!

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Ha una forma quasi ‘classica’, anche se potrebbe sembrare un esercizio di virtuosismo.
B.: Sì, è addirittura un po’ in contrasto con il mio modo di essere in genere. Quando studio, preferisco mille volte arrangiare un bel pezzo e trovare una chiave nuova e speciale per suonarlo, piuttosto che costruire un hot lick. Però nei miei studi mi sono anche trovato una raccolta di cose pazzesche, che avevo lentamente sviluppato ed elaborato, e che sono una sorta di ‘passo doppio’ legato al crosspicking, in cui non c’è solamente il down-down-up, ma con il giù-giù-su si intricano anche altri movimenti particolari, che tra l’altro nessun altro suona, è proprio un’invenzione. Infatti quando i chitarristi lo sentono, gli viene mal di testa, perché loro devono sempre capire quello che sta succedendo. Così ho pensato che in fondo il mondo va avanti anche in quella direzione, non puoi sempre dire: «No, gli hot lick non mi interessano!» È anche una cosa divertente, se pensi a Doc Watson con “Black Mountain Rag”! Però ho pensato di farlo anche con una piccola punta di ironia e di scherzo…

Infatti a me ha fatto pensare anche a Walt Disney… Visto che non ho sofferto di mal di testa, mi è arrivato il riferimento a qualcosa di espressivo, a un’evocazione ‘classica’, piuttosto che lo stupore per la prodezza tecnica.
B.: Sì, ed è uno scoiattolo che c’è veramente, che va avanti e indietro e si muove esattamente come la musica; ha anche una fidanzata, con cui a volte si rincorrono…

Gli hot lick li avevi lì, però non li hai usati tanto per usarli, hai dato loro una forma espressiva…
Federica: Ha dato loro una struttura, che risente del suo essere europeo, perché come dici tu è una struttura che riporta un po’ alla musica sinfonica, c’è l’esposizione del tema e poi lo sviluppo. Ha cercato di dare una struttura a questi esercizi pazzeschi sul crosspicking che da tempo faceva, inventando questi movimenti…
B.: Perché poi è divertente, specialmente inventare una cosa che non esiste, è fortissimo! A un certo punto, per caso, succede che c’è un piccolo movimento che «Ah, ma questo non lo fa nessuno!» O magari non lo so, ma non l’ho mai sentito da nessun altro… È stato divertente anche perché, quando l’ho registrato, il meccanismo del punch in non funzionava, non era sincronizzato, e quindi praticamente ho inciso il pezzo direttamente in quattro take; ogni assolo l’ho registrato di fila senza editing. Che di solito oggi un pezzo così, con la tecnologia, te lo puoi rigirare… Ma comunque, con la vecchiaia che avanza, prima dovevo scaldarmi un po’, perché a 161 di metronomo, sai, sono 1253 note, sono quasi tutti ottavi, ho fatto il calcolo!

Nel disco ci sono anche diversi riferimenti alla old-time music, però con l’inserimento di certe tecniche contemporanee. Non so se è qualcosa che si usa fare spesso adesso…
B.: No, è una cosa abbastanza rara, ma secondo me è una cosa fortissima. Sono andato a risentirmi i vecchi dischi e c’era per esempio “Red Mountain Wine”, che era suonato praticamente senza chitarra, senza i riff della chitarra: allora io mi sono immaginato di essere uno dei Delmore Brothers, che arrangiava questo pezzo, e ci ho aggiunto tutte le parti di chitarra. Sì, è anche questa una direzione divertente, una riedizione di un brano old-time che non aveva le parti di chitarra, ripensato per come avrebbero potuto suonarlo.

Questo è un po’ un disco di ‘andata e ritorno’, di ritorno in America con il tuo bagaglio…
F.: Con il suo bagaglio di questi venticinque anni di ricerche. Perché, quando ha registrato Dialogs con John Jorgenson e gli altri, suonava la musica americana, la riproduceva come gli americani gliela avevano insegnata. E adesso è un po’ un ritornare in America con il suo modo di vedere. Non sappiamo neanche come sarà accolto in loco un disco del genere, soprattutto dalla comunità dei tradizionalisti. Perché i tradizionalisti magari un messaggio così ‘aperto’ non lo accettano, mentre chi ama la musica senza essere troppo fissato in un determinato genere potrebbe amarlo. Questo lo vedremo, perché il disco non è ancora uscito in America, uscirà a settembre: siamo molto curiosi!
B.: Speriamo!

Molto interessante è anche “Early Bluegrass Guitar Medley”, che è un tributo a nomi poco noti ai più come George Shuffler, Charlie Waller e Don Reno, i primi chitarristi bluegrass che hanno influenzato lo stile.
B.: Sì, questo è un altro messaggio dell’album, perché in America ci sono delle icone come Doc Watson e Tony Rice, ma il flatpicking in effetti è nato anche grazie al lavoro di tanti altri chitarristi, che per primi – all’interno di una bluegrass band – hanno deciso di fare l’assolo. A un certo punto è arrivato Dan Crary, che è stato pienamente riconosciuto da questo punto di vista. Ma ancora prima di lui ci sono stati quei tre nomi. Io l’avevo già capito proprio quando ho iniziato a studiare flatpicking. Ascoltavo tantissimi dischi e avevo chiesto in giro dove potevo trovare altri assoli di chitarra: erano esattamente quei tre chitarristi. E così mi ero fatto trascrizioni e trascrizioni di questi primi assoli, che trovavo molto vitali e che – quando li suono in qualche mio concerto – risultano quasi sconosciuti. Shuffler suonava negli Stanley Brothers ed è stato un po’ l’inventore del crosspicking. Waller suonava nei Country Gentlemen. Don Reno era un grande banjoista, che suonava anche la chitarra in maniera fantastica: il suo “Country Boy Rock’n’Roll” è forse l’unico di quei brani che all’epoca era diventato abbastanza famoso.

In effetti i chitarristi più conosciuti del primo bluegrass, Lester Flatt o Charlie Monroe e gli altri chitarristi che hanno suonato con Bill Monroe, suonavano con il thumb pick e non facevano molto oltre l’accompagnamento…
B.: Infatti, mentre sono quelli di cui stiamo parlando che hanno generato la scintilla. Chiaramente Clarence White è arrivato subito dopo, però loro hanno avuto una grande importanza, hanno avuto un coraggio pazzesco.

Un altro aspetto più generale che ho notato, è che tu in precedenza – per arrangiare e armonizzare i brani della tradizione in modo nuovo e diverso – ti muovevi soprattutto sulle accordature aperte e su sonorità ‘aperte’, mentre in questo disco ho trovato diverse progressioni armoniche più sofisticate, con gli accordi completi. Un esempio è anche la tua composizione originale “Acadian Dream”…
B.: Sì, un po’ più sofisticate e in accordatura standard…

Anche in “You Are My Sunshine”, a un certo punto sembra quasi che suoni in chord melody
B.: Sai perché? Quel giorno lì, prima di partire per registrare, avevamo fatto un tributo a Michael Hedges. E avevo ascoltato un sacco di cose sue. Così mi era rimasto in testa di preparare qualcosa di solo strumming su grandi accordi… lui lo faceva in una maniera sconvolgente!
F.: Sì, hai fatto degli studi armonici più approfonditi per questi arrangiamenti, con dei giri di accordi molto più particolari rispetto alla ‘apertura’ delle open tunings, che ti lasciano molta più libertà ma meno ‘rigore’ armonico.
B.: È interessante perché, quando un artista folk vuole usare degli accord progressivi su una melodia tradizionale, è sempre molto difficile in quanto deve costantemente usare il freno del buon gusto. In molti punti mi ero segnato sei-sette accordi diversi su cui potevo arrivare: alcuni erano troppo scontati, altri erano troppo ‘fuori’, e l’ammontare degli accordi ‘strani’ secondo me deve essere abbastanza limitato. Non puoi pensare di essere un jazzista che vuole mettere accordi e rivolti a tutti i costi… Devi provarne tantissimi e, alla fine, ce n’è uno tra tutti che esprime una poesia particolare.

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Questo è anche un disco che hai voluto fare tutto da solo, con delle sovraincisioni.
B.: Sì, è una cosa che mi hanno chiesto più volte: sempre più spesso, ai miei concerti in solo, vedo che gli americani desiderano comprare un disco che sia il più vicino possibile a ciò che ascoltano dal vivo. Perciò cose troppo sofisticate non andrebbero bene, e poi era tanto tempo che non facevo un disco così, ci voleva proprio. Quindi, una sola sovraincisione in metà dei pezzi, e tutto il resto volutamente da solo.

Allora, arriviamo all’Acoustic Night e a questa idea dello spettacolo basato sui polistrumentisti.
B.: Guarda, noi per l’Acoustic Night lavoriamo tutto l’anno, discutiamo tutto l’anno e abbiamo un vero parco idee di temi, che ci vengono in mente in momenti diversi, quando andiamo ai festival, mentre viaggiamo, navigando su YouTube, in qualsiasi modo. La magia che poi si crea in realtà non è una cosa che succede così per caso, ma è il frutto dell’attenzione alla ricerca di un concetto artistico forte. Quest’anno avevamo varie possibilità e vari nomi. Per esempio c’era John Jorgenson con il suo polistrumentismo. Poi allo Steve Kaufman’s Acoustic Kamp abbiamo visto lo spettacolo di Radim Zenkl, che si è presentato con la fujara – enorme flauto a becco della musica popolare slovacca – e altri strumenti, e tutti i flatpicker sono rimasti attoniti. Così si è consolidata questa idea del polistrumentismo, anche perché Jorgenson avevamo provato già tantissime volte a invitarlo: o lui non poteva, o non rientrava nel tema dell’anno in cui avrebbe potuto. Ma lui è una persona dolcissima, un amico, e il secondo concetto che noi seguiamo per l’Acoustic Night è di scegliere personaggi con delle qualità umane particolari, che siano ben disposti a costruire una sinergia senza porsi come delle prime donne. Perché poi vediamo che alla fine, quando c’è un concetto forte, la gente rimane proprio entusiasmata. E quest’anno è veramente successo, abbiamo notato una vibrazione della sala bellissima.

Ho anche ascoltato la trasmissione della prima serata in diretta su Radio 3, e ogni tanto arrivavano dei messaggi entusiasti da parte di un pubblico eterogeneo, non specificamente di appassionati di questo genere musicale.
B.: Eh, sì, ritorniamo su John Weingart e la ‘musica che non si può ascoltare alla radio’: la conferma che se tu trovi una bella forma per proporre la musica indipendente, in una maniera particolarmente accattivante e intelligente, questa musica può veramente entrare nel cuore della gente e raggiungere dei buoni ascolti. La gente forse è proprio stufa di quello che i media principali le propinano. Ed è un segnale bellissimo secondo me, abbiamo ricevuto anche noi dei commenti poetici e profondi.
F.: Abbiamo ricevuto due poesie scritte da gente che guidava e ascoltava Radio 3!

Anche qui la mia idea riprende delle considerazioni fatte prima. Il quadro venuto fuori dal concerto di ieri sera, per chi conosce il percorso di Beppe e ha seguito le edizioni passate da addetto ai lavori, potrebbe per certi versi apparire meno ‘magico’ di precedenti escursioni nella musica canadese o nelle chitarre d’Europa o del mondo. Abbiamo assistito cioè a una rappresentazione più ‘normale’ di una modalità tutta americana, che però risulta comunque affascinante per questa abilità nel suonare insieme scambiandosi continuamente le parti e, in più, perché mostra quello che abbiamo già visto in The American Album: cioè un’America nuova, con Jorgenson e la sua assimilazione del jazz manouche, con Zenkl e la riscoperta delle sue origini ceche…
F.: Sì, in effetti il bilancio è ancora una volta estremamente positivo. Siamo proprio contenti di aver trovato degli artisti che, come sempre, pur non avendo suonato insieme prima, si sono mostrati così disponibili a mettersi in gioco. E si sono resi tutti disponibili su una scaletta predisposta da noi, perché Beppe ed io proponiamo sempre una scaletta un paio di mesi prima del concerto, questo succede da tredici anni. E di solito tutti rimangono un po’ scioccati, dal momento che non conoscono le Acoustic Night, non sanno ancora di cosa si tratta. Sono abituati a partecipare a dei festival dove suonano i loro set, le loro cose. Quindi noi dobbiamo sempre affrontare questa sfida di superare il loro primo impatto, perché magari pensano: «Oddio, vado in Italia, per tre serate in cui devo suonare queste cose che non sono proprio il mio repertorio!» Invece si sono resi tutti di una disponibilità unica. Zenkl è arrivato con una valigia piena di strumenti e strumentini, e ha vissuto la costruzione dello spettacolo con un rigore e una serietà incredibili. Lo stesso Jorgenson, aveva il resto del tour con la sua Electric Band, e noi gli abbiamo procurato tutti gli strumenti: la chitarra manouche gliela ha costruita Antonellu Saccu in quindici giorni, e tra l’altro John l’ha giudicata molto buona; il bouzouki greco non l’abbiamo trovato a Genova e l’abbiamo comprato online, così è arrivato uno strumento che aveva bisogno di una messa a punto, l’abbiamo sistemato, e lui si è adattato immediatamente. È stato incredibile l’amore che hanno messo in questa situazione. Per molti americani non è così, e noi non possiamo invitare chiunque. Finora siamo stati fortunati, siamo contentissimi, perché giochiamo un po’ al buio all’inizio.
B.: La situazione di questa Acoustic Night è anche legata al fatto che adesso c’è la crisi intorno, non si può negare, è dappertutto ed è devastante. Picchia sulla cultura. Noi ci teniamo a curare tutta una serie di dettagli, e tutti questi dettagli risentono del fatto che c’è la crisi, richiedono di porre su di loro una maggiore attenzione. È importante che l’Acoustic Night ci induca a questo superlavoro per mantenerci, e per mantenere una piccola eccellenza italiana, questo piccolo esempio indipendente che, nonostante la crisi, riesce coi soldi derivati dall’incasso delle serate a continuare a vivere. Quindi siamo nonostante tutto contenti, anche se abbiamo dovuto impegnarci un po’ di più!

Andrea Carpi

PUBBLICATO
Chitarra Acustica, 6/2013, pp. 24-29

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