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Dove sono andati gli zampognari

Dove sono andati gli zampognari

di Reno Brandoni

Ricordo l’uomo con la zampogna. Si annunciava al citofono all’ora di pranzo. Noi, da qualche giorno, avevamo già preparato il presepe. Per la precisione l’8 dicembre, perché le tradizioni erano tradizioni, e guai a non osservarle. 

Il musicista si presentava con il suo strumento il sabato o la domenica prima di Natale. La scelta era di natura essenzialmente commerciale: in quei giorni avrebbe sicuramente trovato i genitori, che con molta probabilità gli avrebbero elargito un generoso compenso. Mia sorella ed io non vedevamo l’ora di poterlo ascoltare. Suonava gonfiando le guance alla Gillespie e riempiva di aria la pelle di pecora, che si dilatava fin quasi a scoppiare. Poi, con le dita sulle canne, modulava l’emissione del suono per renderlo melodioso. Intonava il suo repertorio natalizio e noi ragazzini lo guardavamo a bocca aperta, in religioso silenzio. 

Alla fine dell’esibizione, papà gli chiedeva il bis e gli metteva in mano delle banconote. Non so a quanto ammontassero, ma credo fossero sufficienti a rendere quell’ultimo brano ancor più appassionato. La storia si ripeteva ogni anno, senza nessun invito e senza nessun accordo, perché ognuno conosceva il suo ruolo e faceva la sua parte. C’era un’eleganza, uno stile, un modus vivendi che faceva sentire tutti fieri e orgogliosi. La musica era al centro dell’attenzione, e il più umile dei musicisti veniva trattato al pari di una celebrità. 

Io sono stato educato così, con questo senso del dovere e del rispetto. Ma non ero l’unico, né ero un’eccezione. 

Con i miei amici poggiavamo la puntina sul vinile e, fin quando non raggiungeva l’ultima traccia, ascoltavamo con attenzione, anche se alla fine il commento poteva essere negativo. Chi suonava era guardato con curiosità mista ad ammirazione. E non c’erano gare di bravura, perché la musica non aveva campioni o record da battere, era musica: accompagnava la tua prima carezza, un bacio appassionato, la tua prima intima avventura. Con la musica non eri mai solo: non avevi l’imbarazzo del silenzio, perché il silenzio era riempito dalle note che eliminavano la necessità di dire qualcosa…

Ora non chiedetemi perché non amo più suonare in giro, nei pub, nei ristoranti, nei festival assemblati da ‘scambisti infedeli’, dove suoni se poi inviti; e se non hai un tuo festival, sei fuori dai giochi. 

Tolti pochi casi di amici genuini e sinceri, il resto si perde in ambigue contrattazioni, dove il tuo compenso spesso è marginale, perché la ‘visibilità’ ti avrebbe già ricompensato…

Per non parlare di club o generici locali, in cui il rumore sovrasta ogni musica e – alla fine della serata – invece di essere remunerato puoi anche cenare gratis… ma con parsimonia.

Anche in questo caso ci sono le giuste gradevoli eccezioni. Ma parlo dello standard delle cose che vanno, che portano i musicisti quasi a vergognarsi di chiedere qualcosa per la propria arte.

In questo Natale pieno di nostalgia, ma anche di clemenza, ho un solo desiderio, che ritorni l’uomo con la zampogna. E che mia nipote, con gli occhi ancora pieni d’innocenza, lo ascolti in silenzio. Perché il rispetto non è una dote, ma un insegnamento.

Buon Natale e buon fingerpicking!

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