(di Andrea Carpi) – Credo che si sia capito: l’album di Francesco De Gregori che canta Bob Dylan ci è piaciuto molto. Non solo, ma azzarderemmo a dire che è un disco a modo suo ‘epocale’, per la maturità e anche l’autonomia e l’originalità con cui si è posto al confronto con un gigante della musica internazionale. Per questo abbiamo approfittato dell’incontro con De Gregori, in occasione dell’intervista che abbiamo pubblicato sul numero di novembre, per dare uno sguardo dietro le quinte di questo suo lavoro e incontrare anche i chitarristi della sua band attuale: Lucio Bardi, chitarra acustica ed elettrica, che ha iniziato la sua collaborazione nel tour che ha preceduto il triplo album dal vivo Catcher in the Sky/Niente da capire/Musica leggera del 1990; Paolo Giovenchi, chitarra elettrica e acustica, che si è inserito in occasione dell’album Amore nel pomeriggio del 2001; e Alessandro Valle, chitarra slide, pedal steel guitar e mandolino, che si è aggiunto nel 2005 con l’album Pezzi. Ne è scaturita una lunga chiacchierata, nella quale ci siamo a volte lasciati trasportare dalle nostre piccole grandi manie specifiche, ma al tempo stesso sono emerse numerose considerazioni importanti, intorno alla professione del musicista a ai suoi rapporti con la passione della musica.
Cominciamo con una vostra presentazione personale: qual è stata la vostra formazione musicale e quali sono state le esperienze formative che vi hanno portato a fare i musicisti professionisti?
Lucio: Io ho avuto la fortuna che mia sorella, Donatella Bardi, iniziava a fare il mestiere di cantautrice. E appena ne ho avuto la possibilità, che ero abbastanza grandicello, mi ha coinvolto nelle sue attività, dai piccoli locali alle scuole occupate e ai grandi raduni giovanili come i festival di Re Nudo, nei primi anni ’70. La prima cosa importante che ho fatto con lei, con il gruppo de Il Pacco insieme ad Alberto Camerini ed Eugenio Finardi, è stata proprio nella sede di Re Nudo a Milano, dove ho conosciuto Luigi Grechi, che allora si presentava con il nome di Ludwig. Poi da lì, piano piano, sono stato chiamato a suonare nei primi dischi di Finardi e Camerini, e nel ’74 – durante un festival di Radio CTA a Catania – ho conosciuto Edoardo Bennato, che dopo poco tempo mi ha coinvolto prima in studio, poi in qualche concerto dal vivo in sostituzione di Roberto Ciotti, che stava cominciando a fare i suoi primi passi nella carriera solista; in quelle occasioni io quindi suonavo la chitarra slide. Con Bennato sono andato avanti a suonare fin verso l’85-86, e nel frattempo facevo anche altri lavori con musicisti del giro milanese e romano. Poi però lui ha continuato a chiamarmi periodicamente, per esempio nel ’90 per Edo rinnegato, un disco in quartetto acustico con Roberto Ciotti e Luciano Ninzatti, e nel ’92 per Il paese dei balocchi.
Comunque la mia formazione, all’inizio, è stata completamente da autodidatta. Ho cominciato a studiare musica da militare: ho fatto il militare nella fanfara dei bersaglieri e suonavo il basso tuba; così lì ho cominciato a leggere la musica, in chiave di basso. Poi, finito il militare, nell’81 mi sono iscritto a un corso privato del chitarrista classico Mauro Storti, con cui ho studiato per vari anni. In effetti mi è stato di grande utilità: tutta la tecnica, la mano sinistra, la serietà dello studio…
Come hai vissuto il passaggio dalla pratica da autodidatta alla disciplina dello studio?
È stato un po’ difficile. Io ero un po’ anarchico in tutto quello che facevo, quindi la disciplina non mi andava molto giù. Infatti non studiavo molto, avevo facilità e imparavo le cose al volo, a orecchio, ma il maestro se ne accorgeva! Comunque mi è stato utile…
E tu suonavi sia l’acustica che l’elettrica fin dall’inizio? Che musica ascoltavi?
L.: All’inizio con mia sorella suonavamo una 12 corde Zerosette acustica, poi la mia prima chitarra personale è stata una Telecaster nel ’71. Ma il mio gusto, la mia passione, come per tutti quelli della nostra generazione, non sono stati formati tanto dalla musica acustica o dalla musica elettrica, dal folk o dal rock; perché tutto quello che arrivava era talmente ricco, talmente forte, da Dylan a Stephen Stills e Joni Mitchell, con quel modo di suonare l’acustica, oppure i Cream, Hendrix, Jeff Beck… c’era l’ira di Dio! Quindi tutti noi avevamo fame di tutto, volevamo imparare tutto, non è che ci fermavamo all’acustica o all’elettrica in particolare…
Io ti associavo di più all’acustica, e Donatella mi sembrava più legata al circuito folk…
L.: Però anche lei aveva ricevuto in casa un’infarinatura musicale ad ampio raggio: mio padre [il pittore Mario Bardi] mentre dipingeva ascoltava jazz, musica classica, Mahalia Jackson oppure Edith Piaf, Brassens e tutti i francesi. E poi Donatella ascoltava di tutto, da Janis Joplin e Grace Slick dei Jefferson Airplane a Sandy Denny e al folk inglese, oppure alla musica popolare italiana.
E tu, Paolo, come hai iniziato?
Paolo: Io sono di diversi anni più giovane e, tutto sommato, devo dire che un po’ mi dispiace, nel senso che Lucio è entrato molto presto nell’ambiente, mentre io ho cominciato più ‘dal basso’; sempre molto giovane anch’io, ma non avevo nessun aggancio in famiglia, nessuna conoscenza nel mondo musicale. Però tutta la parte che Lucio ha descritto, delle influenze musicali, delle passioni che ci hanno acceso, appartiene anche a me. Avevo comunque un cugino più grande che ascoltava molta musica, e che mi ha fatto ascoltare molta musica. In realtà, mi sarei voluto iscrivere al conservatorio, perché fin da bambino, da quando mi hanno regalato il primo giocattolo-chitarra, non ho più voluto sapere di nient’altro. La mia famiglia però era la tipica famiglia di una volta, per cui il conservatorio andava bene, ma solo se facevo il liceo musicale, dove c’era il numero chiuso e in pratica non si poteva entrare a chitarra; inizialmente c’era solo posto per l’oboe. Così mi sono iscritto al Centro Romano della Chitarra, qui a Roma a via Arenula, dove si preparavano gli studi per il conservatorio. C’erano bravi insegnanti, come il mio maestro Lucio Dosso, un grande concertista. Ho frequentato per un po’ e anch’io, come Lucio, avevo facilità, ma non mi andava molto di studiare e imparavo le cose a memoria piuttosto che approfondire la lettura… Poi hanno cominciato a piacermi altre cose, la chitarra elettrica, Hendrix, e quella scuola mi è diventata stretta. Non me la sentivo di sottopormi a tutta quella disciplina per arrivare magari a suonare Bach, che mi piaceva moltissimo ascoltare suonato da altri, ma poi – se andavo in cantina a suonare con gli amici – suonavo tutt’altro e quello era il momento che mi dava più soddisfazione. Quindi la musica per me ha preso un’altra direzione. D’altra parte, per una serie di circostanze, avevo cominciato già da piccolo a fare feste di piazza, concerti con cantanti come Gianni Nazzaro e la sorella Anna Maria; quello che mi capitava, insomma. Poi, in seguito, con gli amici abbiamo formato un gruppo e messo su un progetto di canzoni originali, con un orientamento progressive, trovando il favore di un produttore; che però, contemporaneamente, faceva anche colonne sonore e collaborava con diverse trasmissioni Rai, finendo per prendere soprattutto questa strada. Così ha lasciato cadere le produzioni che aveva messo in piedi, alcune delle quali interessanti, con il risultato che noi siamo rimasti parcheggiati per quasi dieci anni. Però ci aveva messo a disposizione il suo studio, dove facevamo provini ma anche turni per le sue cose, sonorizzazioni, sigle, dischi di altri artisti. E capitavano anche cose molto belle, per esempio un disco con Gabriella Ferri. Quindi abbiamo avuto l’opportunità di farci le ossa, di imparare tante cose. È stata da una parte una perdita di tempo, ma dall’altra un periodo formativo importante. Quando poi, arrivati intorno ai vent’anni, abbiamo realizzato che il nostro progetto come gruppo non aveva sbocco e che quella strada non ci avrebbe portato da nessuna parte, si sono sciolte le righe e ognuno ha pensato di cercare lavoro in modo autonomo; sempre nel campo della musica, perché giunti a quel punto ci era più facile fare quello piuttosto che qualsiasi altra cosa. Così, piano piano, ho cominciato a lavorare con altri artisti come Michele Zarrillo, Luca Barbarossa, Mimmo Locasciulli, e da lì poi è nato l’aggancio con Francesco De Gregori. Nel frattempo facevo tanti turni, suonavo molto nei locali, come Lucio non mi tiravo mai indietro.
Per quanto riguarda la formazione, dopo il breve periodo al Centro Romano della Chitarra, un’altra cosa che è stata molto importante per me è stato l’incontro verso il ’79-80 con Maurizio Bonini, che all’epoca era molto appassionato di country blues: suonava in quello stile col basso continuo, che io non sapevo nemmeno cosa fosse e che mi fece letteralmente impazzire. Poi a casa sua mi faceva sentire dei dischi allora introvabili, come Bukka White e Robert Johnson. Lui mi ha trasmesso qualcosa che forse è ancora più importante dello studio musicale in sé: la ricerca delle fonti, che ti porta a capire da dove avevano attinto Clapton o Hendrix, dai quali magari sei stato influenzato, riuscendo a scomporre il loro stile per arrivare alla radice e poter ricostruire una tua elaborazione personale. Oggi un ragazzo che fa blues spesso fa dieci frasi di Stevie Ray Vaughan, che spesso e volentieri sono a loro volta citazioni vere e proprie di dieci altrettanto grandi bluesman del passato. Allora, se mi limito a suonare la copia della copia, finisco semplicemente per suonare come Vaughan; se invece suono una sua frase sapendo che viene per esempio da Buddy Guy, mi si aprono tante possibilità. Ecco, questo è quello che io considero il mio percorso musicale più importante.
Importante poi è stato anche il lungo rapporto di collaborazione con Mimmo Locasciulli, che è molto esigente dal punto di vista musicale: poiché la musica non è la sua professione principale, visto che lui è un medico, ha sempre vissuto il lavoro del musicista in maniera molto autonoma e libera, un po’ anche per gioco e passione; e quindi, paradossalmente, finiva per essere molto più esigente di altri artisti, che lavoravano tutto sommato in modo più canonico, anche perché forse più vincolati a tabelle di marcia e volontà dettate dai produttori e dalle case discografiche. Ed io, che pure ero abituato a fare un po’ di tutto in studio, mi sono ritrovato con lui ad affrontare un approccio musicale del tutto nuovo. Inoltre lavorava spesso con Luciano Torani, fonico e musicista molto preparato, con l’orecchio assoluto, ma a sua volta pignolissimo. E tutti e due insieme erano veramente tosti, per un povero chitarrista ‘sprovveduto’ come me, che arrivava lì venendo da tutt’altro tipo di esperienze. Però alla fine anche quella è stata un’esperienza importante, nella quale ho avuto modo di imparare tanto. Perché Mimmo mi spingeva ad andare sempre oltre tutte le cose che pensavo di saper fare: «Questo è troppo blues, questo è troppo rock, questo è troppo pop, questo è troppo country», tutto era ‘troppo’. I suoi musicisti di riferimento erano musicisti che, sinceramente, in molti casi neanche conoscevo, come Marc Ribot per esempio, oppure vecchie registrazioni un po’ ‘anarchiche’ di Bob Dylan. E tutto questo è stato molto formativo per me. Tra l’altro, oltre che nei suoi dischi, ho anche lavorato in dischi che lui produceva, di Goran Kuzminac, Claudio Lolli, Alessandro Haber.
Dulcis in fundo, arriviamo ad Alessandro.
Alessandro: Io ho iniziato suonando la chitarra e da ragazzino ho formato una band con i miei compagni di scuola. Poi ho continuato a suonare e studiare chitarra, anche elettrica, in una scuola popolare di Genzano con Lello Panico e Fabio Cerrone, fino all’età di vent’anni. Ho anche cominciato a fare qualche lavoro, in particolare sono stato in tour come chitarrista con Alan Sorrenti nei primi anni ’90. Poi sono partito per il servizio militare a Vercelli e lì è avvenuto un episodio chiave. Frequentavo un pub vicino alla caserma, che faceva anche musica dal vivo, e il gestore del pub un giorno mi disse: «Guarda che tra due giorni c’è un concerto fantastico, con un chitarrista bravissimo che suona una chitarra strana, sembra un tavolino». All’epoca ero un chitarrista metallaro, e l’idea di andare a un concerto di chitarra hawaiana non mi attirava molto; però potevo usufruire del permesso ‘termine spettacolo teatrale’ e rientrare all’una di notte, così mi decisi ad andare. Al concerto vidi subito un paio di cose: una chitarra piena di string bender, che avevo già visto su un articolo di Chitarre scritto nientemeno che da Luigi Grechi; e poi quel tavolino pieno di corde con i pedali: era una pedal steel guitar, ma all’epoca non sapevo cosa fosse; quando leggevo sulle riviste americane «pedal steel», pensavo si trattasse di un pedale per chitarra, ma quella sera capii che i suoni che cercavo di emulare con il bending sulla chitarra, erano appunto i suoni di quello strano strumento. Insomma quello era il concerto del Branco Selvaggio di Ricky Mantoan, e così nacque il mio amore per la pedal steel guitar. Da lì ho cominciato a rompere le scatole a Mantoan, che mi dava delle lezioni per telefono, finché un giorno ci siamo incontrati a casa mia, quando lui era in giro con Luigi Grechi per il tour di Girardengo e altre storie [1994]. Io ero contentissimo, ma avevo dimenticato che lui è mancino, per cui non poteva suonare la mia pedal steel! Poi ogni estate andavo in tour con qualche band, come il gruppo pop dei Vernice e i Pane & Vino, finché nel ’97 ho deciso di andare per un periodo negli Stati Uniti a studiare seriamente, con tappe a Washington per delle lezioni private con Mike Auldridge, a Nashville per il Jeffran College of Pedal Steel di Jeff Newman, e a St. Louis per la Scotty’s International Steel Guitar Convention. A Nashville avevo lezione dalle otto di mattina alle sei del pomeriggio in una cabin in montagna, poi Newman mi segnava su una mappa tutti i club dove la sera potevo andare a sentire dei concerti: fantastico! Al mio ritorno ho iniziato a lavorare con Little Tony, visto che il fratello e chitarrista Enrico Ciacci cercava un suonatore di pedal steel. Poi, nel 2003, Luigi Grechi stava per registrare Pastore di nuvole, ma Ricky Mantoan era occupato e non poteva suonarci, così è iniziata la mia collaborazione con Luigi. E da lì è nato anche il contatto con Francesco, iniziato nel 2005 con l’album Pezzi.
Immagino che la tua specializzazione in uno strumento così particolare come la pedal steel ti abbia aiutato nella professione di musicista.
A.: È vero, uno strumento meno suonato può dare più possibilità di lavoro. Ma d’altra parte, se è meno suonato, è anche vero che c’è meno richiesta. In ogni modo sì, aiuta sicuramente, perché in Italia ci sono un sacco di chitarristi bravi; anche se non è facile inserire uno strumento così caratterizzante in un repertorio pop italiano…
Al tempo stesso è uno strumento comodo, che può fare le veci degli archi, di quello che una volta era il Mellotron…
A.: Sì, infatti la storia è partita dalla steel guitar, che con l’accordatura di DO6 copiava le parti degli ottoni nelle orchestre Dixie, nella musica hawaiana e nel primo jazz. Poi la pedal steel si è sviluppata nel corso degli anni, con il passaggio dall’accordatura di DO6 a quella di MI9 nella country music nashvilliana e nella musica californiana. Oggi, come nell’esempio di Paul Franklin all’interno dei Dire Straits, è diventata a pieno titolo uno strumento moderno.
Voi tutti quindi siete arrivati a suonare con Francesco De Gregori che eravate già dei professionisti ben formati. Come potete descrivere il modo in cui si svolge il lavoro con lui? È un lavoro da turnisti, o il lavoro di una band?
L.: Già nelle mie esperienze degli anni ’70, rispetto ai decenni successivi, il rapporto era di tipo più collaborativo, era più un discorso di band. Probabilmente era più diffuso questo modo di lavorare. Anche con Edoardo Bennato, soprattutto all’inizio, il rapporto era un po’ così; poi si trasformò, per esigenze di diverso tipo. Quando sono arrivato a conoscere Francesco De Gregori, era appena uscito Terra di nessuno e i rapporti nel suo gruppo erano un po’ difficili: c’era qualche attrito tra di loro, che poi venne superato. Quindi all’inizio rimasi un po’ perplesso. Però, devi sapere che io venivo da una tournée con Roberto Vecchioni, in cui lui faceva delle presentazioni delle canzoni che duravano quasi più delle stesse canzoni, per cui – in tre ore di concerto – noi musicisti eravamo spesso fermi… Invece, quando iniziai la tournée con Francesco, nell’88, mi accorsi che lui parlava pochissimo e questo era entusiasmante, mi piaceva tantissimo! Poi la musica che faceva era appassionante, i pezzi erano stupendi e i riferimenti stilistici erano molto più vicini al rock, al folk che avevo ascoltato. E Francesco amava le Martin e le Gibson, quelli strumenti lì, era uno che ci teneva tanto a quello che faceva, non delegava ad altri. Insomma mi sono appassionato a questo modo di vivere la band…
Come dicevi prima, il fatto di essere un collaboratore in senso lato più che un turnista faceva già parte della cultura degli anni ’70…
L.: Sì, però in Francesco molto di più, perché nessuno ci dice la parte che dobbiamo suonare, la parte da leggere: in qualche modo siamo noi che la scriviamo insieme, ci diamo dei consigli a vicenda.
P.: Nel tempo si è sviluppata sempre più una libertà di Francesco di intervenire sulla musica in modo totale. Ha avuto sempre meno il bisogno e il desiderio di affidarsi a qualcuno, ha avuto sempre più la possibilità di collaborare e interagire con i musicisti…
L.: Sì, possiamo dire che è assolutamente lui il produttore. Ci tiene talmente tanto, combatte per le sue idee. La figura del produttore viene a ridimensionarsi: c’è Guido Guglielminetti, il ‘capobanda’, che fa da coordinatore, aiuta Francesco magari nelle questioni tecniche, dà dei consigli; ma non è Fio Zanotti che arrangia il disco di Vecchioni…
P.: Sì, esattamente. Non serve quel tipo di produttore.
Qual è allora la funzione del produttore? Tu, Paolo, in Vivavoce figuri anche come produttore in alcuni pezzi…
P.: Beh, mi sono trovato soltanto di passaggio in quel ruolo. Quei pezzi per i quali figuro come produttore venivano da una lavorazione diversa rispetto al contesto generale del disco: erano stati realizzati in un’altra sessione di registrazione, dove effettivamente m’ero rimboccato le maniche io per un’esigenza particolare di fare un lavoro abbastanza veloce, e c’erano parecchi contenuti miei che avevo inserito; addirittura ho suonato il basso in certi brani. Lì il mio ruolo è stato più vicino a quella che è la figura classica del produttore. Ma nelle altre situazioni lavoriamo assolutamente tutti quanti assieme, con Francesco che dà il maggior numero di indicazioni possibili e noi – attraverso la conoscenza di anni – le interpretiamo con lo strumento; perché chiaramente a lui manca il linguaggio per esprimersi più tecnicamente. E, alla fine, otteniamo un suono che ci fa sembrare una band, anche se non nasciamo come una band. Ma lo diventiamo perché lavoriamo con lo stesso approccio di una band, dove ognuno mette del suo e tutti comunque sono al servizio dell’artista, sempre però con le proprie personalità.
L.: Probabilmente lui negli anni è riuscito a selezionare, a captare tutte queste personalità e unirle in un discorso comune, scegliendole sia per il modo di essere che per il modo di suonare.
P.: Adesso siamo in dieci, e trovare gli spazi per tutti non è facile. Però in qualche modo riusciamo a portare a casa il risultato. In questa direzione, un momento importante è stato l’album Pezzi [2005], che doveva rappresentare non dico un punto d’arrivo, ma di ‘fissazione’ del lavoro musicale portato avanti da quando ero entrato io in Amore nel pomeriggio [2001] e poi soprattutto dal vivo; un lavoro proprio ‘dylaniano’ se vogliamo chiamarlo così, un lavoro di destrutturazione e ristrutturazione dei brani, di svolta rock. Il discorso della band è nato qui. E all’inizio è stato un lavoro estremo, perché Francesco ha fatto delle cose che molti ‘degregoriani’ hanno fortemente disapprovato: ha ‘aggredito’ le sue cose, le ha stravolte volutamente. Voleva cambiare, voleva trovare una sua strada autonoma. Infatti da allora non ci sono stati più produttori esterni. Gli ultimi sono stati Fio Zanotti [con Mira Mare 19.4.89, 1989] e Corrado Rustici [con Prendere e lasciare, 1996].
A.: Sì, il lavoro con De Gregori è una cosa particolare. Ma comunque, in generale, nella musica pop è difficile che ci sia qualcosa di scritto per quanto riguarda i nostri strumenti: le parti scritte le ha chi lavora in orchestra, non chi lavora in una band. La fortuna della band di De Gregori è che tutti i musicisti sono molto preparati, e tutti quanti ascoltano gli altri. Così nessuno mette mai la nota ‘fuori posto’, tutti lavorano per il suono della band.
Sì, l’ho notato in particolare nell’ultimo disco dedicato a Dylan, che suona secondo me come i dischi americani, nel senso che suonate tutti ‘poco’, si sentono distintamente gli interventi di ciascuno.
A.: Sì, c’è una grande differenza: in Europa si cerca sempre di ‘orchestrare’, quindi si trovano tanti strumenti con suoni ‘piccoli’; invece molte produzioni d’oltreoceano prevedono pochi strumenti, ma con i suoni ‘grossi’.
Visto che questa intervista è destinata ad esser letta dai lettori di Chitarra Acustica, parliamone un po’ della chitarra acustica! Che spazio ha nel vostro lavoro rispetto alla chitarra elettrica? Come vi scambiate le parti tra l’una e l’altra?
L.: Anche se Paolo ama pure l’acustica e la suona da dio, anche se ha una grande cultura in materia, credo che sia naturalmente e caratterialmente più portato verso l’elettrica. E io invece il contrario…
Anche quando l’altro chitarrista era Vincenzo Mancuso era così…
L.: Sì, sì, forse un po’ per pigrizia, perché non sono mai ‘impazzito’ appresso ai pedali e ho sempre fatto una fatica incredibile a capire il processamento del suono; anche se ora sto cominciando a comprendere tante cose, grazie pure a Vincenzo e Paolo che mi hanno fatto da maestri: che fortuna ho avuto a lavorare sempre con grandi chitarristi elettrici! Ma, in ogni caso, c’è già una naturale divisione dei compiti. Poi credo che la chitarra acustica abbia nell’avventura di Francesco De Gregori un’importanza fondamentale. A parte alcune canzoni che nascono dal pianoforte, la stragrande maggioranza nascono con l’acustica…
P.: Nessuna sulla chitarra elettrica, sicuramente!
L.: Poi in quasi tutti i pezzi c’è una particolare attenzione su quali corde usare, che chitarra, che modello, di quale anno; un’attenzione quasi maniacale… e meno male! Questo da parte dello stesso Francesco, seguito da Paolo che sa tutto, è un’enciclopedia vivente delle chitarre. E una simile attenzione mi appassiona da morire, perché imparo anche tante cose che non sapevo. Inoltre non c’è questa vecchia orrenda tradizione della musica ‘leggera’ italiana, secondo cui sembra quasi che la chitarra acustica ci debba essere ma non si deve sentire…
P.: … deve fare lo shaker!
L.: Muove tutto, ma non si deve sentire: questa è follia! Pensando a un appassionato di Grossman, di Stills, di Dylan stesso…
P.: Tra l’altro è importante dire – e questo lo devi scrivere! – che Francesco è un gran chitarrista! Nel senso che – avendo sempre avuto un certo tipo di rapporto con la chitarra, a parte quello con Dylan – quando lui mi fa vedere con lo strumento un pezzo o qualcosa che ha in testa, io in qualche modo riesco a capire quasi tutto quello che ha in mente, dalla batteria all’assolo. Il suo modo di suonare, che è molto ‘rudimentale’ per così dire, però è autosufficiente, come nella tradizione dei folksinger del genere. Quando canta e si accompagna da solo, non senti il bisogno di nient’altro ed è tutto sottinteso nel suo modo di accompagnarsi; anche se non è un modo ‘raffinato’, però ci sono gli accenti, gli accenti della voce, c’è la dinamica…
L.: “Pezzi di vetro”, pensa che meraviglia!
P.: Poi c’è il fatto del ‘movimento’, quello che noi chiamiamo ‘muovere il pezzo’. Infatti io spesso cerco di convincerlo a suonare e lui non vuole, si sminuisce da solo, dice: «Ah, voi siete i chitarristi, io non sono capace!» Ma poi in realtà, quando una cosa la fa lui, dà esattamente il senso di come deve essere.
D’altra parte, tutti i chitarristi che venivano dal folk sono stati introdotti al rock da Dylan, dove sono ben presenti le radici acustiche del rock…
L.: … che sono presenti eccome, sono fondamentali!
P.: Perché, come ha detto una volta Keith Richards: «A me il rock non è mai piaciuto, mi piace il blues»…
L.: Hendrix è un chitarrista blues…
I primi chitarristi di blues elettrico suonavano tutti con le dita, con due dita; i primi chitarristi di rock’n’roll, con Elvis Presley, suonavano una specie di ragtime.
P.: Sì, esattamente.
Poi questi stili sono stati ripresi con il plettro, ma un giovane che magari inizia a suonare con il plettro senza conoscere quello che c’è prima, forse non riesce a cogliere la giusta accentuazione…
P.: Esatto, che poi è la pulsazione vitale di quella musica, che parte da lì.
Nell’intervista che abbiamo pubblicato a novembre, Francesco ha detto che la grande ‘botta’ gli è stata data dagli album della svolta elettrica di Dylan, Highway 61 Revisited e Blonde on Blonde, mentre magari i degregoriani della prima ora lo pensavano più legato alla musica acustica; ma abbiamo visto che in questa svolta l’acustica c’è sempre.
P.: Certo, c’è sempre, perché sta alla base, all’origine.
A questo punto, voi siete legati da anni al lavoro con De Gregori: come riuscite a far convivere questo impegno principale con eventuali altre esperienze parallele, se le portate avanti e se ne sentite l’esigenza?
L.: Tutti noi l’abbiamo comunque fatto, nonostante sia difficoltoso, perché quando l’artista con cui principalmente vogliamo lavorare decide che si parte, si parte e dobbiamo mollare tutto. Però, a dispetto di questo, un po’ per lavoro, un po’ per passione, un po’ perché è quasi l’unica cosa che sappiamo fare, quindi ci adoperiamo per altri progetti.
A.: Incastrare altri lavori con quello di De Gregori è difficilissimo. Ora, parlando del mestiere di musicista, c’è da dire che sì, è un mestiere, ma qualcosa diventa un mestiere… quando sei costretto a pagare le tasse. Altrimenti non è un mestiere, fondamentalmente è una passione. Nessuno decide di diventare professionista: il professionista è un musicista che trasforma la passione in lavoro, è un ‘mago’ o uno fortunato. Quindi avere un lavoro così grande è ai limiti dell’ingombrante, è un lavoro che ti prende tutta la vita: torni a casa e pensi a prepararti al prossimo impegno, a come migliorare certe cose, a come eliminarne altre. E il tempo che ti rimane, cerchi di dedicarlo ad altre cose che ti piacciono. Ma non è così facile: tante volte, quando ti chiamano per fare un lavoro, sei costretto a dire di no. Comunque a me capita di fare altre cose, in particolare con l’etichetta Appaloosa/IRD, che organizza minitour in Italia di artisti americani, generalmente del genere Americana: è divertente ed è anche una grande scuola.
E per quanto riguarda cose più personali?
L.: Sì, credo che ognuno di noi scriva delle cose. Come mi diceva Luigi Grechi una volta: «Anche a te capita di avere sempre musica nella testa? E da qualche parte la devi mettere questa musica, perché altrimenti ti riempe la testa!» Poi da tanti anni sto seguendo un progetto, molto lentamente: con Donatella suonavo con un gruppo, che poi è proseguito dopo la sua scomparsa e con il quale abbiamo registrato due dischi [Moti Shkon, 2005, e Arberìa, 2015] con Francesco Mazza, un cantante di madrelingua albanese. Il gruppo si chiama Ensemble, è un gruppo molto acustico, e questi dischi sono stati realizzati in lingua arbëreshe [la lingua parlata dalle minoranza etno-linguistiche albanesi d’Italia.] per conto della Regione Calabria, dove ci sono alcune comunità di origine albanese, in vista della salvaguardia della loro lingua.
P.: Negli ultimi anni a me ha appassionato molto curare la produzione per altri artisti: ho prodotto Reds! di Andrea Tarquini e c’è la collaborazione con Luigi Grechi, per il quale spero che ci sia presto nuovo materiale su cui lavorare; siamo già in fibrillazione. Per il resto, l’attività di turnista non è più come una volta, tutti gli artisti hanno le loro band. Al di là che probabilmente non ci poteva capitare di meglio che collaborare con un artista come Francesco, il nostro non è più un lavoro nel quale puoi fare tre tour diversi all’anno con artisti diversi. Una volta era così, adesso è molto cambiato. Per cui la nostra attività tende a spostarsi in altre situazioni, nello studio, nella composizione, nelle colonne sonore, cosa che non mi dispiacerebbe.
Oggi i giovani, anche grazie alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie, vivono subito la fantasia di incidere il loro proprio disco. Voi non ce l’avete questa fantasia?
P.: Mah, io ho fatto un percorso diverso: per quanto riguarda la musica originale, ho avuto la mia esperienza con il gruppo di cui parlavo prima, dove ero comunque un elemento di una band. Non ho mai avuto la velleità di essere un chitarrista solista e fare il mio disco solista. Anche perché, quasi sempre, ti rendi conto che più della metà di questi dischi sono inutili, e l’altra metà per la maggior parte non è che la copia di qualcos’altro. È pur vero che fare un tuo disco ti può portare un certo indotto lavorativo, così che un bravo strumentista si può creare un suo circuito, fare le sue serate, dare lezioni, scrivere sulle riviste. Ma personalmente, quando penso a un’attività di scrittura, penso soprattutto a una colonna sonora, a una canzone per qualche altro artista piuttosto che al disco del chitarrista; anche perché la musica che ascolto è difficilmente il disco del chitarrista solista, per quanto bravo possa essere…
L.: Musica strumentale va bene, ma magari applicata a qualcosa, al servizio di un progetto. Per esempio a me è capitato spesso, proprio perché uno dei membri dell’Ensemble è un attore e ha un suo teatro, di realizzare con il gruppo delle musiche per i suoi spettacoli; ed è divertente e appassionante. Una volta ho scritto una danza per un balletto, e mentre la suonavo la ballerina ci provava delle coreografie: è stato bellissimo, suonare con una ballerina che sta interpretando quello che tu suoni!
A questo punto concluderei con i classici consigli per i giovani chitarristi, magari acustici, che desiderano impegnarsi nella musica ed eventualmente intraprendere la professione musicale.
L.: Mi è capitato per diversi anni di insegnare in scuole private di musica, e a volte c’erano degli allievi che avevano una grande attitudine, una grande facilità. Allora, da un punto di vista strettamente ‘economico’, avrei pensato di dissuaderli dal proseguire con la musica, di lasciar perdere e di studiare da avvocato! Però da un punto di vista musicale, data la passione e la capacità, cercavo di fare in modo che non smettessero affatto, anzi. Perché la musica può avere anche una valenza terapeutica, ‘psicanalitica’, di riuscire a fare qualcosa per sé; e questo servirebbe a tutti.
P.: La funzione della musica, all’inizio, deve essere quella di divertisi e di fare ciò che ci piace. Tanto più che esiste un grande equivoco nelle scuole di musica: le scuole servono e sono necessarie, diciamo pure tutte le cose belle possibili delle scuole, ma evitiamo di promettere agli studenti che questo percorso garantirà loro di lavorare con la musica. Innanzitutto perché la musica in Italia non è veramente riconosciuta come un lavoro, è riconosciuta semmai solo dal punto di vista fiscale: questa non è la sede, ma si potrebbe aprire tutta una serie di capitoli riguardanti i contratti di lavoro, l’assistenza sanitaria, la previdenza… Tutti quelli della nostra generazione che in qualche modo sono riusciti a fare della musica un lavoro, all’inizio non pensavano che potesse esserlo. Partire con l’idea che la musica sia un lavoro, è un’illusione. Conosco tanti ragazzi che vengono mandati dai genitori a studiare nelle scuole di musica, con l’idea che stiano seguendo un ‘corso professionale’; come se, una volta usciti dalla scuola, potranno fare il lavoro del musicista: beh, io questa cosa la trovo gravissima; perché non è così.
A.: In effetti è il nuovo trend dell’insegnamento: le vecchie scuole popolari di musica insegnavano a suonare lo strumento; le nuove scuole insegnano anche il marketing. Promettono certe cose, e in cambio ti danno una certificazione oggi più riconosciuta, talvolta un diploma di laurea: tutto è più organizzato, più strutturato, con un approccio più serio. Ma il mio consiglio comunque è prima di tutto di divertirsi, perché è la cosa più importante. Se qualcuno scopre che sta facendo qualcosa che non lo diverte, è bene che faccia un passo indietro. Questo non è un mestiere facile: si dorme poco, si viaggia tanto, si rischia tanto, si sta tanto tempo fuori casa. Se non ti diverti, non vale la pena.
Non pensate d’altra parte che studiare musica, migliorare la propria tecnica e la propria competenza musicale, sia comunque un valore positivo? In America, dove il mercato offre maggiori possibilità, i musicisti giovani che escono dalle scuole sembrano avere talvolta qualcosa in più rispetto ai loro padri. E in ogni caso portano avanti e vivono nel rispetto di tutta la loro tradizione…
P.: Quindi torniamo ai discorsi di prima… Studiare è un’ottima cosa; il problema è cosa studiare. Se non si torna a una storia, a una radice, e possibilmente alla propria, si arriverà sempre con dieci anni di ritardo. E il ritardo sta proprio nella metabolizzazione delle cose. Noi per esempio abbiamo una grandissima tradizione di musica classica e di musica popolare: ecco, a me piacerebbe che qualcuno, all’interno del percorso di studi della musica moderna e anche delle nuove tecniche strumentali, inserisse degli elementi delle nostre tradizioni. Se alla fine vogliamo tornare ancora a Francesco De Gregori, è vero, abbiamo parlato di Dylan, della musica americana, della chitarra acustica; ma quanta musica popolare nostra c’è nella musica di Francesco?
In effetti ha suonato con Caterina Bueno, ha fatto un disco con Giovanna Marini…
P.: E, guarda caso, Francesco è uno che oggi può anche passare dentro una musica americana mantenendo la sua italianità, creando uno scambio. Anche se va a fare una cover, però comunque porta dentro un bagaglio, mette dentro qualche cosa che è sua, che è nostra.
Andrea Carpi