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Acoustic Night 15: Intervista a Kathy Mattea

Acoustic Night 15: Italian Americans
Dalle miniere della West Virginia a Nashville e ritorno

(di Andrea Carpi / foto di Michael Schlüter e Sergio Farinelli) – La country music di Nashville ha sempre mostrato una facciata di corsa al successo commerciale. Ma, al tempo stesso, ha sempre mantenuto dei legami inscindibili con il retroterra culturale popolare che caratterizza il suo pubblico contadino bianco di riferimento. E da qualche anno a questa parte mostra di essere attraversata da fermenti significativi di rinnovamento. Molti musicisti che lavorano all’interno del suo meccanismo industriale, cominciano a sentire l’esigenza di recuperare il senso della propria identità culturale, delle proprie radici; cominciano ad avvertire il bisogno di costruire una dimensione artistica più indipendente e portatrice di valori sociali e poetici. Ed è all’interno di questo contesto che può essere letta la storia interessantissima di Kathy Mattea; la storia di una giovane ragazza, che appartiene alla comunità di origine italiana della West Virginia in Appalachia e che, un bel giorno, decide di trasferirsi a Nashville per tentare di costruire una carriera musicale. Quindi, una volta raggiunto l’apice della sua notorietà, inizia a mettere gradatamente il suo successo al servizio di una serie di prese di coscienza: il valore della sua storia e delle sue origini sociali, i valori umani della solidarietà, l’urgenza dei temi ambientali.

Kathy Mattea - foto - di Sergio Farinelli
Kathy Mattea – foto – di Sergio Farinelli

La prima domanda prende spunto dal titolo della Acoustic Night di quest’anno, “Italian Americans”. La tua storia è particolarissima, perché sei di origini piemontesi e sei nata in West Virginia, nella regione dei Monti Appalachi, cioè la culla della musica country old-time. Quando è arrivata in America la tua famiglia e quale eredità ne hai ricevuto? Che ricordi hai?
Ho ricevuto molto. L’incontro della cultura degli Appalachi con la cultura italiana è considerata un fatto comune nella mia terra natìa, ma al di fuori dell’Appalachia la gente non si rende conto di quanti immigrati italiani ci siano stati. Mio nonno è arrivato, credo, nel 1911. Era un muratore. La rivoluzione industriale era ai suoi inizi e lui costruiva forni per l’industria del vetro e forni per la trasformazione del carbon fossile in coke. Le miniere di carbone poi erano in pieno boom, e vi si poteva guadagnare di più. Così mio nonno è andato a lavorare in miniera. C’era un’intera comunità italiana, si parlava italiano nelle miniere di tutta la West Virginia. E anche adesso alla West Virginia University, nelle mense degli studenti, è possibile mangiare dei panini con peperoni simili a quelli che facevano per i minatori, cuocendo i peperoni nella pasta del pane. È uno snack che si trova solo in quella zona.

E l’eredità musicale?
Mio padre amava la musica, ma non c’era nessun musicista nella sua famiglia. Suo zio suonava, però papà non si era potuto permettere delle lezioni di musica e non era nemmeno particolarmente portato. Tuttavia cantava tutto il tempo, e segnatamente ci cantava una ninna nanna italiana che la sua mamma torinese cantava per lui. Quindi intorno a noi girava comunque molta musica. Anche mia madre amava la musica, però non era in grado di intonare una melodia. E in definitiva io costituisco un’eccezione in famiglia, sono l’unico musicista!

Ho letto che hai ricevuto una formazione vocale classica durante la scuola media.
In realtà ho ricevuto un po’ di educazione musicale durante il liceo, ma non molto. La materia l’ho affrontata più seriamente quando mi sono trasferita a Nashville; avevo diciannove anni, ero giovane, avevo saltato un anno a scuola. Appena arrivata, un produttore ha ascoltato un mio nastro e mi ha detto: «Hai una bella voce, ma è necessario che tu conosca meglio il tuo strumento». Così mi ha consigliato un insegnante e ho iniziato a studiare. Prima succedeva che magari mi venivano fuori certe cose la sera, poi il giorno successivo non riuscivo più a rifarle. Avevo bisogno di capire di più, così ho cominciato ad approfondire. Il mio insegnante è stata una cantante lirica che ora ha settantotto anni. Ho studiato con lei per trentatre anni. Per l’Acoustic Night mi ha aiutato a tradurre “Lontano lontano”, ero andata da lei per chiederle: «Come posso interpretare questa canzone in modo autentico?» Lei adesso è diventata la mia mamma. E ho appena trovato un nuovo insegnante, un insegnante di jazz. La mia vecchia insegnante in sostanza è adesso come una madre, mentre il mio nuovo insegnante è… il mio insegnante!

Kathy Mattea - foto di Michael Schlüter
Kathy Mattea – foto di

Prima quindi eri principalmente un’autodidatta. E hai cominciato a suonare la chitarra quando hai scoperto la musica folk. Quali sono state le tue influenze allora?
Ho preso qualche lezione di chitarra, ma soprattutto imparavo da chiunque mi insegnasse qualsiasi cosa. Suonavo in chiesa, in gruppi folk, suonavamo musica folk in chiesa. Uno dei ragazzi del gruppo folk suonava anche in un gruppo di rock’n’roll, così mi ha insegnato dei licks di rock’n’roll. Chiunque mi mostrasse qualcosa, ero come una spugna, anche se – come ho detto – non avevo ricevuto un’educazione musicale ‘formale’. Ero abbastanza abile, se mi mostravano le cose: riuscivo a suonare le scale, riuscivo a imparare e a fare un sacco di cose. Per quanto mi riguarda, la chitarra mi ha cambiato la vita. Avevo saltato il mio primo anno di scuola, per cui ero sempre l’alunno più giovane della mia classe, un po’ immatura, impacciata nella vita sociale. Beh, intellettualmente ero avanti; emotivamente, ero indietro. Era molto difficile. Quando un giorno andai a un campo estivo, notai che intorno a chi aveva una chitarra tutti si riunivano per cantare. Non avevi bisogno di mostrare particolari abilità sociali. Non era necessario dire sempre la cosa giusta. La musica lo faceva per te. E questo ha cambiato la mia vita.

Poi nel 1976 ti sei unita a un gruppo di bluegrass, i Pennsboro; successivamente ti sei trasferita a Nashville e gradualmente sei diventata una star della musica country. Come valuti il confronto tra il mondo del bluegrass, che è considerato più ‘puro’ e legato alla tradizione, e il mondo della country music nashvilliana, visto come più ‘commerciale’ e legato all’industria?
Quando ero all’università, la musica di tradizione attraversava una nuova fase chiamata newgrass. Si trattava di giovani musicisti che si avvicinavano alla tradizione aggiungendovi la propria chiave di lettura moderna. Proprio come quello che sta accadendo oggi con i Grascals, gli Steeldrivers e molti altri nuovi musicisti di tendenza. Era l’epoca dei New Grass Revival e l’album Will the Circle Be Unbroken era appena uscito, con la Nitty Gritty Dirt Band che suonava con Doc Watson, Norman Blake, Vassar Clements. Si stava creando un ponte tra due mondi. E questo è diventato il mio punto di vista. Così, invece di essere inscatolata nell’uno o nell’altro, non mi è mai venuto in mente che non si potessero apprezzare entrambi. Ancora una volta, cercavo di apprendere da qualsiasi fonte possibile. Quello che è successo, è che ora il mio sapere è come il formaggio svizzero: un po’ di conoscenza e un po’ di buchi. Perciò, quando mi presento alla gente, dico «Alcune cose le so, di altre non ho la minima idea!» Ed è proprio così. La gente di solito è molto comprensiva da questo punto di vista.

Kathy Mattea - foto di Michael Schlüter
Kathy Mattea – foto di Michael Schlüter

Com’era formato il tuo repertorio quando hai cominciato a ottenere dei successi? Erano brani composti da altri o da te stessa? Nel 1989 per esempio hai scritto la top ten “Where’ve You Been” – che ti ha valso il Grammy come ‘miglior cantante country femminile’ – insieme a tuo marito Jon Vezner, che si è unito a voi in alcuni pezzi durante l’Acoustic Night.
No, non scrivevo particolarmente. In effetti ero venuta a Nashville per scrivere, ma mi sono rivelata soprattutto una cantante. Sono una cantante che a volte scrive. Scrivere non è la mia passione. Al contrario, mio marito non può non scrivere. Lui deve scrivere e ama cantare, ma la sua vera passione è la scrittura. La mia è cantare. Così sono diventata una voce per numerosi cantautori di Nashville, e molti dei miei primi successi erano composti da autori che erano dei favoriti nella cultura underground.

Per esempio Nanci Griffith non era ancora molto conosciuta come autrice, quando nel 1986 hai portato nella top five la sua “Love at the Five and Dime”.
Nanci Griffith e diversi altri, che probabilmente non sono molto noti in Italia e che al tempo furono delle scoperte.

Con l’intento di mantenere viva la tua musica tornando alle radici, nei primi anni ’90 hai viaggiato spesso in Scozia per studiare i legami tra la country music e il folklore tradizionale scozzese. Ma allora, permettimi la battuta, sei di origini scozzesi o italiane?
[ride] Beh, il fatto è che ho incontrato il musicista scozzese Dougie MacLean e siamo diventati subito amici. Sono andata in Scozia su suo invito e ho scoperto che c’erano un sacco di differenze tra le nostre culture, ma che avevamo anche molto in comune. E poi i monti della Scozia sono molto simili ai monti della West Virginia dove sono cresciuta…

Forse anche come quelli del Piemonte, Piedmont in inglese…
Sì, esattamente, proprio all’inizio degli altopiani, è là che sono cresciuta… Così, con Dougie, c’erano molti punti di vista che erano simili. Di conseguenza lui è venuto e ha suonato sui miei dischi, ed io sono andata e ho cantato nei suoi dischi. La BBC ha fatto anche un documentario sulla nostra amicizia. Abbiamo lavorato insieme e ci è sembrato molto naturale. Questo è interessante. Quando poi Beppe mi ha detto che Genova è la Scozia dell’Italia, ho pensato: «Guardo questa città ed è collinare, ed è così che era dove sono cresciuta. Oh, questo forse ha un senso, questo punto di vista!»

Chissà… e vorrei aggiungere qualcosa. All’inizio, il folk music revival italiano degli anni ’60 era fortemente ispirato da quello americano. Alan Lomax ha girato tutta l’Italia insieme all’etnomusicologo italiano Diego Carpitella, e insieme hanno pubblicato la prima raccolta di folklore musicale italiano. C’era anche l’idea che la musica degli Appalachi fosse una chiave per riscoprire vecchi aspetti dimenticati della tradizione europea. Per esempio alcuni gruppi di revival dell’Italia settentrionale, che ha un retroterra culturale celtico, hanno adottato il dulcimer perché simile a una cetra che si suonava nelle Alpi. Il Piemonte poi è l’area di maggiore diffusione dei canti narrativi, delle ballate, che hanno punti in comune con le Child Ballads…
Interessante! Ad esempio io ho fatto amicizia con un gruppo di musica celtica della Galizia, nella Spagna settentrionale, i Milladoiro. E anche loro parlavano di una cosa simile: sono originari di una regione montagnosa e parlavano di questi strumenti musicali, come le cornamuse, che hanno viaggiato in lungo e in largo… Credo che in questo ci sia qualcosa che riguarda le montagne, l’isolamento di certe regioni, nelle quali la storia passa attraverso i canti, la comunità si realizza attraverso i canti in un modo tale che, quando la gente comincia a potersi muovere con maggiore facilità, essi vanno a costituire una sorta di contenitore che sta alla base della propria cultura. È interessante come questo influenzi la musica.

Poi nel 1994 hai collaborato con Crosby, Stills e Nash, Alison Krauss e Suzy Bogguss alla registrazione di “Teach Your Children”, e con Jackson Browne alla registrazione di “Rock Me on the Water”, per un album di beneficenza in favore della lotta all’AIDS, Red Hot + Country. E nei primi anni ’90 eri già stata coinvolta in altre iniziative connesse alla lotta all’AIDS. Puoi dire qualcosa su questa svolta della tua vita, perché immagino che abbia rappresentato un cambiamento importante?
Ho cominciato a perdere degli amici a causa dell’AIDS. A quel tempo la gente era terrorizzata. Terrorizzata di parlarne. Potevi perdere il lavoro se si scopriva che eri malato. Così, per cercare di mostrare il proprio sostegno ai malati in un modo che non destasse polemiche, c’era chi indossava dei nastri rossi per dire semplicemente: «Vi sosteniamo». A pochi giorni da un’edizione dei Country Music Awards, che come d’abitudine sarebbe stata trasmessa in TV, qualcuno a Nashville – che appunto scrive di televisione – sapeva che avevo parlato a proposito dell’AIDS e disse: «Speriamo che dica qualcosa, se sale sul palco». Da una parte quindi ero pubblicamente chiamata a parlare, dall’altra la CMA, la Country Music Association, non prevedeva nastri rossi, non aveva alcuna intenzione di avere a che fare con i nastri rossi. Perciò ero in una posizione difficile, così ho chiamato la CMA e ho detto: «È successo questo»… Questa telefonata non ha ricevuto risposta. Quindi c’è stato un momento, prima di salire sul palco, in cui ho dovuto interrogare il mio cuore. Non volevo mettermi in mostra, non volevo apparire troppo politicizzata, non volevo essere presuntuosa. Ma non volevo nemmeno essere vile. Così ho detto semplicemente: «Alcuni di noi indossano dei nastri rossi, io ne sto indossando quattro per i miei amici che ho perso negli ultimi quattro anni». Poi ho proseguito. Ed è stato un momento che ha cambiato la mia vita. Il giorno dopo, numerosi giornalisti sono venuti – è una settimana importante a Nashville – e si sono susseguite interviste, ho partecipato a un grande meeting del settore radiofonico e un ragazzone di nome Bubba, un ragazzone del profondo Sud si è alzato, ha attraversato la stanza e ha detto: «Tu sei il mio eroe. Sono stato omofobo fino a che il mio migliore amico del liceo non è venuto da me dicendo: “Ho l’AIDS. Sono gay. Non te l’ho mai detto”. Ho passato insieme a lui gli ultimi anni della sua vita ed è stato un grande dono!» Per tutta la settimana cose del genere si sono ripetute più e più volte. C’erano persone nell’ambito della musica country che venivano toccate dall’AIDS ogni giorno, che avevano paura di parlare gli uni agli altri, perché non sapevano che cosa sarebbe successo se avessero parlato. E per molti cominciò ad aprirsi un nuovo modo di comunicare.

Arriviamo così al 2008 con il tuo album Coal, che promuove l’impegno sociale attraverso una raccolta di canti sul lavoro nelle miniere di carbone; un album seguìto nel 2012 da Calling Me Home, sempre dedicato al tema delle miniere. Un’altra svolta importante nella tua vita.
Sai, nel 2006 ci fu un disastro in miniera, un’esplosione in West Virginia. Tredici minatori rimasero intrappolati sottoterra, per quattro giorni. Nessuno sapeva se fossero vivi o morti. Ed io restai inchiodata a quella storia, come ossessionata. Non conoscevo quegli uomini, non ero mai stata in quella città. Ma ogni pomeriggio scoppiavo in lacrime in attesa di loro notizie. E quando li hanno trovati erano morti. L’intero paese stava seguendo la vicenda, e gran parte del mondo. Furono proclamate delle onoranze funebri pubbliche e la CNN, che doveva coprire l’avvenimento, chiamò il mio ufficio per chiedere se potevo cantare una canzone alla fine. Penso che abbiano chiamato nel pomeriggio di venerdì e io avrei dovuto cantare la domenica. Così ho chiamato un gruppo di musicisti e ci siamo ritovati in uno studio televisivo di Nashville, dove abbiamo passato la giornata a imparare una canzone che abbiamo suonato la sera stessa. Durante tutta la giornata abbiamo continuato a parlare di quella tragedia e io ho detto a Byron House, il bassista: «Byron, non so, non smetto di piangere per questa storia!» E lui mi ha risposto: «Kathy, è per questo che esiste la musica, per aiutarci a capire i nostri dolori, per esprimere le nostre sofferenze». Così ho pensato che forse era proprio questo che avrei potuto fare con questa grande emozione, avrei potuto realizzare un album sulle miniere di carbone. Per anni avevo avuto l’idea di fare un disco sulla Appalachia, o sulle montagne, oppure sulla casa, sul senso di casa, qualcosa; ma non riuscivo a dargli una forma nella mia testa, e questa poteva esserne una. Così sono tornata indietro su tutte le canzoni dedicate al lavoro in miniera che ho potuto trovare. E ho trovato delle canzoni incredibili. Ma è stato come educare se stessi alla storia della propria musica. Come ti ho detto, quand’ero giovane cercavo di imparare da chiunque, ma non c’era nessuno intorno a me che conoscesse la old-time music degli Appalachi. L’avevo persa. Così ora è stato come tornare indietro e raccogliere la parte mancante. Addirittura, ho scoperto anche che il nonno di mia madre era originario del Galles, era un minatore del carbone nel Galles. E ho trovato canzoni gallesi sulle miniere di carbone. È incredibile.

Negli ultimi tempi hai anche cominciato a tenere delle conferenze, abbinate a selezioni musicali, su argomenti molto interessanti. La prima proposta è My Coal Journey [‘Il mio viaggio nel carbone’], sulla storia della tua famiglia e delle miniere di carbone, sui problemi ambientali connessi a questa storia, insieme ad alcune riflessioni sulla musica degli Appalachi.
My Coal Journey si è sviluppata grazie al fatto che, mentre accadeva quella catastrofe in miniera, ho assistito a uno slide show di Al Gore. Lui addestrava volontari per la presentazione di questo slide show e io sono entrata nel primo corso di formazione, così ho imparato a presentare An Inconvenient Truth [‘Una scomoda verità’]. Col tempo, grazie ad alcune delle cose che ho imparato in quel corso, ho preso coscienza del pericolo costituito dalle miniere a cielo aperto, che sono cresciute in West Virginia negli ultimi vent’anni a un livello inimmaginabile. E così gli attivisti per la difesa del territorio sono venuti da me e mi hanno chiesto se potevo cantare in alcuni dei loro raduni. Le vecchie canzoni parlano ancora a quella gente. Le canzoni sono la voce e io ho cercato di dare una mano per riunire quella gente. Andando avanti ho sviluppato questo slide show su come la musica aiuta il cambiamento sociale, aiuta a riunire le persone, a dare loro una voce, su temi specificamente ambientali. Così canto alcune canzoni di Jean Ritchie, di Billy Edd Wheeler, alcune delle canzoni che parlavano di miniere a cielo aperto negli anni ’60 e ’70 e che sono ancora attuali. Semplicemente questa cosa è cresciuta, è stato come essere guidati in qualcosa. E in effetti racconto solo la mia storia riguardo alla scoperta di questa musica, alla scoperta dei problemi ambientali e alla scoperta di come la musica abbia a che fare con questo, possa aiutare in questo. E spero che raccontando la mia storia io possa ispirare qualcuno a pensare: «Cosa posso fare? Come posso coinvolgermi di più?» Allo stesso tempo, ho iniziato a studiare la non violenza, la non violenza nel linguaggio. E ciò riguarda anche il modo in cui parliamo quando siamo in contrasto, il modo in cui possiamo comunicare al fine di ascoltarci l’un l’altro quando non siamo d’accordo. La musica aiuta anche in questo.

Un’altra tua conferenza s’intitola The Arts: Remembering Who You Are [‘Le arti: ricordando chi sei’] ed è dedicata al ruolo che le arti hanno rivestito negli anni della tua formazione e nelle scelte della tua carriera, così come nella loro definizione della nostra identità e nella costruzione delle nostre comunità.
Sai, il teatro è il luogo dove la comunità si riunisce e dove tutti, non importa cosa facciano per vivere o quanti soldi guadagnino, tutti gli spettatori sono uguali. Stanno tutti vivendo la stessa cosa. Nessuno ne parla, ma il teatro è il grande livellatore. In noi tutti si risveglia qualcosa, quale che sia la rappresentazione che guardiamo sul palco. Si risveglia la stessa cosa in tutti noi.

Come il teatro nell’antica Grecia.
Sì, esattamente!

Interessante è anche Finding Your Path [‘Cercare il proprio sentiero’], dove racconti «alcune delle importanti lezioni che hai appreso lungo la strada», «alcune delle esperienze che aiutano a demistificare un approccio artistico/spirituale a un mondo secolare».
Beh, questo tema è nato dal fatto che un amico, che insegna al Berklee College of Music di Boston, mi ha chiesto di andare a parlare con i suoi studenti. Ma, cosa avevo da dire ai suoi studenti? E ho pensato: «Beh, racconterò loro la mia storia, di come ho messo piede nel mondo musicale». E ci sono stati dei momenti in cui ho preso una decisione ascoltando una voce dentro di me, invece di quello che i miei genitori e la mia famiglia si aspettavano. Sai, ero destinata a diventare un ingegnere, perché avevo questo ‘cervellone’, ma la musica nutriva la mia anima. E in età giovanile ho pensato: «Ho intenzione di provarci, perché se non lo faccio, non potrò darmi pace per il resto della vita». Insomma ci sono stati dei momenti in cui ho dovuto prendere decisioni importanti e, guardando indietro, sono stata in grado di mantenere la calma e ascoltare la mia risposta interiore, piuttosto che cercare di capire quale fosse la risposta ‘migliore’. Ogni volta che ho fatto questo, ho preso la decisione giusta. Allora voglio dire ai giovani che questo è importante, perché non sono in molti a raccontargliela così. Tutti dicono loro di decidere con la testa. Io sto cercando di aiutarli a prendere decisioni con il cuore, perché credo che questo serva a una vita. Serve alla nostra vita in un modo migliore. E così adesso sto scrivendo un libro su questo argomento: è il mio progetto per quest’anno.

Raniolo, Vignola, Gambetta, Vezner, Mattea - foto di Michael Schlüter
Raniolo, Vignola, Gambetta, Vezner, Mattea – foto di Michael Schlüter

In conclusione, visto che siamo una rivista di chitarra acustica, vorrei chiederti qualcosa sul tuo rapporto con la chitarra. Cominciamo proprio dalla tua bella chitarra nera, che mi sembra usi da parecchi anni.
Quando ero all’apice della popolarità, suonavo chitarre Taylor e ne avevo molte. Così la Taylor mi ha chiesto se mi avrebbe fatto piacere avere un modello signature e hanno realizzato un centinaio di queste chitarre; io ho avuto la numero 1. Questa poi ha cominciato a diventare… ‘stanca’ della strada, e me ne hanno costruita un’altra, la 00. La numero 1 l’ho persa cinque anni fa durante un diluvio a Nashville, si è distrutta. Questa 00 è anch’essa come un vecchio amico, un vecchio paio di jeans. Ha un top in abete sitka e fasce e fondo in acero. Ricordo di aver scelto l’acero perché, avendo al momento una band numerosa, la brillantezza dei suoi toni alti rendeva lo strumento più presente. Con me suona da venticinque anni il chitarrista Bill Cooley. È eccellente, come Beppe, e fa anche lui i suoi dischi. È molto timido, ma mi insegna delle cose; è come avere il proprio maestro di chitarra sulla strada. A volte dico: «Bill, mi insegni un lick?» E lui mi insegna un lick. Infatti per l’Acoustic Night avevo portato uno strumentale molto difficile, che Bill ed io facciamo assieme in concerto. E ho detto a Beppe: «Non so se questo è difficile o facile per te, ma potrebbe essere divertente». Però Beppe ha pensato che il suo stile non fosse adatto per quel brano. A me ci son voluti probabilmente da sei a otto mesi per impararlo. Mi piace affrontare delle sfide, mi piace suonare la chitarra, ma da questo punto di vista… sono stata una ‘mantenuta’: se voglio imparare qualcosa, lo chiedo a Bill, e lui me lo insegna. Non ho delle basi di conoscenza solide. Posso fare qualcosa durante gli spettacoli, se serve; ma avrei voluto approfondire di più quand’ero giovane, perché credo che sarei potuta diventare una gran chitarrista!

In effetti suoni un fingerpicking morbido, pulito e chiaro.
Grazie!

Usi un thumbpick, molto piccolo; è un Dunlop?
Sì, un Dunlop medium…

[mi mostra le unghie della mano destra] Le unghie delle altre dita sono ricostruite?
Sì, in acrilico. A Nashville molti chitarristi si fanno rifare le unghie il lunedì mattina, per poi fare turni in sala di registrazione tutta la settimana. È una specie di moda adesso. D’altra parte in questa maniera le unghie non danno preoccupazioni, non suonano così dure come i fingerpick di metallo, e si combinano alla perfezione con il thumbpick di plastica.

Kathy Mattea - foto di Sergio Farinelli
Kathy Mattea – foto di Sergio Farinelli

Ieri sera ti ho visto anche usare un doppio capotasto mobile.
Sì, il primo capo, quello tenuto più vicino al capotasto fisso, è un capo normale. L’altro ha la corda bassa tenuta libera, per cui viene chiamato drop D capo: se lo mettiamo da solo al secondo tasto, quando suoniamo la sesta corda otteniamo una nota un tono sotto, come se fosse un Re invece di un Mi; ma se suoniamo un accordo corrispondente al Sol, possiamo mantenere la diteggiatura standard. Lo stesso meccanismo si ripete se usiamo questo capo due tasti sopra quello normale. Insomma è una maniera un po’ ‘pigra’ per ottenere un drop D!

Ma ci sono molti chitarristi bravissimi che usano trucchi del genere!

Andrea Carpi

Grazie a Jackie Perkins per il contributo alla trascrizione dell’intervista.

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