(di Reno Brandoni) – Un pomeriggio a Milano a parlare con Ron. Una conversazione fatta di chitarre e canzoni, racconti ed emozioni. Semplici ricordi che hanno accompagnato la nostra storia musicale di questi ultimi trent’anni. Fuori il rumore della strada, una sirena che passa, il caos della città: tutto svanisce per dare spazio alla fantasia. Se nella stanza ci fosse il caminetto, il fuoco sarebbe accesso e i bicchieri sarebbero pieni, forse di un Porto invecchiato in botti di rovere o, meglio ancora, un buon vino al profumo di frutti di bosco, legno e cannella. Piccoli gesti per accompagnare quest’incontro che inizia nel passato e, nota dopo nota, si ferma proprio lì, ‘al centro della musica’.
Lo sai chi siamo, cosa facciamo?
Siete un giornale di chitarre…
Solo di chitarra acustica.
Fantastico!
Ti ho portato qualche numero per ‘misurare’ la tua passione. Oltretutto lo sai che hai già avuto una copertina?
[guarda la copia di luglio dedicata all’Acoustic Guitar Meeting, dove c’è lui in copertina con Luca Barbarossa] Ah, sì! Abbiamo fatto quel concerto con Luca.
[gli mostro la copia di novembre con Francesco De Gregori in copertina e il PDF di marzo con Carmen Consoli] E con questi numeri abbiamo iniziato la nostra serie di interviste con i cantautori ‘chitarristi’…
Ma avete anche dei suggerimenti da dare o siete solamente un giornale?
No, guarda che noi siamo dei malati, la nostra comunità vive e discute solo di chitarre, quindi puoi trovare o chiedere a Fingerpicking.net tutti i suggerimenti che vuoi. [gli mostro anche tutta la nostra serie di libri didattici che ormai sono più di cento]
[sfoglia la rivista] Le chitarre di Fingerpicking.net, le Effedot… queste sono nuove?
Sì, è un nuovo progetto che stiamo lanciando, ci lavoriamo da due anni per produrre una chitarra di qualità, ma con il giusto prezzo, con capotasto di 46 millimetri… avrai modo di provarle.
Ma è una chitarra piccola?
Avremo tutti i modelli, dalla dreadnought alla parlor, sei curioso?
Per me le chitarre sono come i giocattoli per i bambini, anche dieci al giorno!
Da come sfogli la rivista la tua passione traspare immediatamente. Mi racconti come hai iniziato?
Io ho iniziato comprandomi una Eko dodici corde.
La famosa Ranger?
Sì, esatto, una Eko dodici corde che è stata la mia prima chitarra e che mi piaceva tantissimo: aveva questo suono così ampio, ‘pianofortoso’. E da lì ho camminato molto con la Eko, poi pian piano sono passato a un’altra chitarra, che era una Adamas, quella azzurra in fibra di carbonio…
Era della Ovation…
Sì, della Ovation, con la quale ho registrato tra l’altro “Una città per cantare”. Poi mi sono comprato una mia primissima chitarra ‘seria’, la ‘Ferrari’ della situazione, una stupenda Martin D-28 presa a New York da Manny’s Music, quando ancora c’era Manny’s. E allora mi ricordo che mi fecero vedere venti chitarre uguali e io mi misi lì, le provai tutte e scelsi quella che suonava meglio. Ebbi solo quella Martin, una chitarra ricca, con una sonorità ‘esagerata’; addirittura, con chitarre come le Martin, bisogna stare molto attenti quando si registra, perché sono piene di bassi e di armoniche. Poi passai alla Gibson con una Jumbo, cioè una chitarra sempre molto ampia, perché mi piacevano le casse grandi. In seguito conobbi una persona che rappresentava in Italia le Morgan e le Breedlove, e mi comprai due Morgan bellissime, una dodici e una sei corde, mentre quella che avevo con Luca e avete messo in copertina è la Breedlove. Al festival di Sanremo, quando lo vinsi nel 1996 con “Vorrei incontrarti fra cent’anni”, ho suonato con una bellissima Santa Fe della Takamine. Adesso mi si è rotto l’incasso per la parte elettrica e non si trova più il pezzo per sistemarla, così non la posso più usare…
E quest’ultima chitarra che hai, questa nera?
Questa è una Aria che ho fatto amplificare. Mi piaceva da morire esteticamente, da un po’ di tempo mi sono innamorato delle parlor e questa mi piaceva particolarmente. Per me questa è diventata una compagna meravigliosa: è piccola, la porti dove vuoi e amplificata è pazzesca, suona benissimo.
Dicevi che l’hai fatta amplificare tu…
Sì, ho un semplice Fishman e la chitarra suona bene. Anche se devo farle ‘registrare’ il manico: l’action la devo far equilibrare, c’è un Si che suona troppo.
Però la bellezza della propria chitarra sta anche nelle ‘anomalie’: sapere che hai un Si che suona troppo forte magari cambia il tuo modo di suonare.
A me questa cosa non piace molto: quando faccio un accordo e sento quel Si che impera, già la lascio da parte. A me piacciono le chitarre molto equilibrate. Sai perché? Io uso molto il capotasto per cui automaticamente, spostandomi sulla tastiera, quando vado più su il Si è quello che stona prima insieme al Mi basso; di conseguenza, se suona anche di più si sente più forte. Comunque, a dire il vero, la chitarra è per me una cosa a parte. Io suono il pianoforte, neanche male. Diciamo che ho imparato a suonare la chitarra ascoltando James Taylor, e il pianoforte con Elton John: due riferimenti pazzeschi. Per cui mi piace molto l’arpeggio, il fingerpicking, e mi piace molto la percussione: sbatto molto con il polso sulla cassa per far risuonare le corde. Per esempio mi piace molto Neil Young quando fa “Cowgirl in the Sand”. Ecco, mi piaceva proprio quel ritmo [lo imita con la voce] e mi ricordo che Lucio Dalla, quando stavamo registrando “Come è profondo il mare”, non sapeva bene come farla dal punto di vista ritmico. Allora gli feci proprio il tempo della canzone di Neil Young, perché in quel periodo ascoltavo Harvest e mi veniva naturale pensarla in quel modo, e Lucio disse: «Bello questo accompagnamento!» Così lo usammo su quella sua fantastica canzone.
Suoni col plettro o con le dita ?
Non suono quasi mai con il plettro: anche quando devo ‘grattare’, mi piace farlo con le dita. Il plettro mi serve quando c’è molto casino sul palco, per cui cerchi di suonare un po’ più forte e magari con le dita fai un po’ più di fatica; allora in quel caso il plettro va bene, anche se mi dà sempre l’idea di una cosa un po’ plasticosa.
Anche il suono che ne esce è diverso rispetto al calore del suono del polpastrello…
Io adesso ho una Cole Clark, sono innamorato di questa chitarra: è una Angel meravigliosa, credo sia fino ad ora la chitarra più bella che abbia mai suonato dal vivo.
C’è secondo te una distinzione tra la chitarra usata ‘dal vivo’ e quella in studio?
Assolutamente sì. Io poi cerco di acquistarle che nascono per il live, perché far montare dei pickup non è una cosa che mi piace. Secondo me le chitarre devono anche essere studiate perché debbano essere usate dal vivo: non devono risuonare molto, devono avere un suono abbastanza contenuto sennò rimbombano; questo è un po’ il mio parere, poi ognuno sceglie quello che gli piace. Per la chitarra acustica da studio cerco invece di scegliere sempre delle chitarre ‘ricche’. Anche se sono delle parlor, però devono essere chitarre che risuonano molto; in ogni caso, so che una parlor che risuona molto non sarà mai come una jumbo o una dreadnought.
Il suono della parlor è molto complicato: o è fatta veramente bene, o il suono che ne esce è ‘inscatolato’.
Poi, utilizzando queste chitarre come possono essere le Maton o le Cole Clark studiate per il live, mi son reso conto che vanno molto bene anche in studio; nel senso che le puoi registrare col microfono ma anche in ‘diretta’, e se il suono della diretta è buono, mischiando le due cose puoi ottenere un risultato ottimo. Per questo uso molto la Cole Clark anche in studio, perché non ha un suono di suo esagerato e quindi è già quasi pronta, bisogna farci poche cose in vista del missaggio.
È interessante questa cosa che sta emergendo, ovvero che sul palco si preferisce alla fine utilizzare strumenti ‘meno sonori’ e più controllabili.
De Gregori per esempio usava molto le Martin, ora è passato alle Gibson: sul palco la Martin è difficile da gestire con la band.
Ritornando al tuo approccio con la musica, hai seguito degli studi?
No, non sono mai andato a lezione di musica, ma sono andato a lezione di canto. Perché io abitavo e abito in un paese che si chiama Garlasco, dove c’era una maestra di canto che mi iscriveva a tutti i concorsi canori possibili, già dall’età di dieci anni. Lì poi venni anche notato da un talent scout della BMG, per cui poi fui chiamato per andare a Sanremo nel 1970 con Nada. Però devo dire che proprio un mio amico di Garlasco, che si chiama Patrizio Diana, mi insegnò i primi accordi, fu lui a iniziarmi alla chitarra spiegandomi le varie posizioni e facendomi conoscere i vari libretti. Se uno ha un po’ di musicalità, la chitarra è uno strumento perfetto, se non vuoi essere un ‘virtuoso’ e io non lo sono. Ma credo che ognuno abbia un proprio tocco e faccia uscire un determinato suono dalla chitarra: questo fa tantissimo. Io, pur non essendo un virtuoso, lo riconosco il mio suono. Il suono è nelle tue mani, è come ti avvicini alle corde, quanta tensione dai fisicamente, ma anche con la mente. Sono sicuro che se uno compra una Olson, quando la suona non avrà lo stesso suono di James Taylor. Devo dire la verità, quando sono andato a sentirlo varie volte e mi sono avvicinato al bordo del palco, vedevo anche tutti i marchingegni che usava, che poi sono cose che ormai usano tutti, non è che avesse qualcosa di particolare, per cui è proprio lui che ha un tocco speciale. Non so neanche come ci si possa abituare a suonare con un tocco sempre così lieve: lui non ha mai un suono violento, arpeggia molto e riesce a far uscire la chitarra sempre con la stessa dinamica. È anche strano come faccia a trovare sempre la dimensione di volume giusta e sufficiente, quando suona sul palco con gli altri, pur essendo amplificata la chitarra: o si adatta a un volume molto basso di tutta la band, e credo sia questo il segreto, altrimenti non riesco a capire come faccia. Quando fa anche pezzi un po’ spinti, lui suona sempre allo stesso modo, non è che suoni di più. Io, quando suono sul palco e non mi sento o sento male la chitarra, la spingo e viene fuori un suonaccio e mi arrabbio tantissimo!
James Taylor ha un suo stile ormai inconfondibile.
Sì, lui va per una strada unica da sempre, non si è mai allargato troppo con canzoni esageratamente ritmiche, insomma rock non ne ha mai fatto, ha fatto del blues. Le sue armonie non sono mai banali, piene di accordi con posizioni da perderci la testa. Io starei le ore ad ascoltarlo. Ancora adesso, quando ho voglia di lasciarmi riposare la testa, metto un disco di James Taylor.
Ti rendi conto di come la sua voce suoni come la sua chitarra?
È vero, molto vero, nella sua voce ha quasi un compressore: lui si allontana tantissimo quando spinge, e non è uno che urla per farsi sentire. Credo che questo sia stato uno studio di anni, una ricerca di anni. Credo sia partito proprio dalla stanzetta dove dormiva da ragazzo e, negli anni, abbia voluto raggiungere quella dimensione.
Bisogna anche ricordarsi il periodo e il fermento creativo che c’era…
Sì, ma per esempio David Crosby o Neil Young avevano già altre esigenze. James Taylor invece seguiva tutto un altro percorso.
Certo che l’America ne ha forniti di stimoli!
Per esempio questo John Mayer, che a me piace molto, come suona la chitarra acustica ma anche l’elettrica! Lui è un talento spaventoso, è uno di quelli che possono fare qualsiasi cosa, ma stranamente non è uno che abbia un grande successo popolare. Forse in America ne ha di più, ma nel resto del mondo… in Italia non è molto conosciuto. Io ho fatto “Ferma il treno”, una cover della sua “Stop This Train”, in un album del 2013 che si chiama Way Out, dove ho tradotto quelli che amo di più, da Damien Rice ad Amos Lee e tanti altri. E mi sono molto divertito. Insomma, John Mayer non è una superstar, perché lui è un musicista di una raffinatezza incredibile, e la raffinatezza non sempre va d’accordo con la popolarità.
Purtroppo, quando vai alla ricerca di te stesso fregandone del mercato, pur facendo delle cose innovative o eccellenti non sempre vieni premiato.
Adesso c’è una scuola di pensiero, soprattutto nella musica, che più sei semplice e più le cose sono facili da far passare. Non tanto tra la gente, ma proprio per il sistema del mondo della musica. Adesso fai quattro accordi in più e cercano di analizzarti, ti dicono: «Perché fai questi due accordi in più? Sono bellissimi ma toglili, sono di troppo». Io di solito rispondo: «No!» Adesso, se ascolti le radio, c’è una sonorità unica, simile, come se fosse un dogma, non si può uscire troppo da lì. E questa è una cosa che non riesco a capire: come se uno che volesse andare avanti per fare il proprio lavoro, dovesse per forza entrare in quel meccanismo, usare quel tipo di arrangiatore, perché se non usi quell’arrangiatore non fai successo. A me queste cose mi fanno impazzire, perché poi alla fine non è così. Se tu prendi una canzone strepitosa, non c’è bisogno di andare a cercare nessuno. Sì, puoi anche imbruttirla fin che vuoi, ma se l’hai scritta bella è difficile che diventi brutta. Per questo sono un po’ preoccupato. Quando penso di voler fare un disco cerco di passare sopra a questi pensieri, però automaticamente credo che questo stile di pensiero in qualche modo mi blocchi un pochino. Prima facevo molta meno fatica a mettermi al piano o alla chitarra per comporre delle musiche; perché io faccio sempre prima le musiche cantando in un inglese inventato, maccheronico, poi ci metto i testi. E prima mi mettevo al pianoforte e me ne venivano tre, adesso ne scrivo una al mese. Dovrei probabilmente spegnere tutto, non ascoltare più niente, e andare per la mia strada. Il disco che ho fatto ora, La forza di dire sì, è un disco totalmente libero, non si è fatto influenzare da niente e da nessuno. Hai sentito come Francesco ha fatto “I ragazzi italiani”? Io sono quasi svenuto: questa cosa un po’ alla Cohen, questo mondo al contrario, lui è andato proprio dall’altra parte del mondo. Mentre io, quando avevo scritto la musica, ascoltavo molto Lou Reed, David Bowie, lui ha veramente stravolto la canzone musicalmente, essendo convinto anche che il testo era più attuale adesso che allora. Il testo, tra l’altro, è anche suo e di Lucio. Pensa che l’abbiamo scritta in viaggio nel 1978: stavamo andando da Roma verso Bologna con una Volkswagen, una cabriolet, dove si stava stretti; c’era Lucio davanti, con il suo produttore che guidava, mentre io ero dietro con Francesco, con una chitarra in mano: pensa te come si poteva stare, con Francesco che è alto come un abete. E ho detto: «Posso farvi sentire una cosa?» Così gli ho fatto sentire questa musica, poi a me era venuta anche questa frase: «E i ragazzi italiani già venivano su». Mi era venuta quell’idea e loro fecero il resto, fecero il testo in tre ore. Arrivammo a Bologna che il testo era finito e io ero l’uomo più felice del mondo.
Fammi capire come sono nati gli arrangiamenti de La forza di dire sì.
Francesco mi ha chiesto personalmente di poter fare la base di “Ragazzi italiani” a Roma insieme ai suoi musicisti, e io sono stato ben felice di dargli questa possibilità, questo spazio. Quindi lui mi ha mandato questa cosa che mi ha dato subito uno ‘schiaffone’, tanto che io stesso ho pensato: «Ma cosa vado a fare un duetto con lui, che canta a dei livelli strepitosi!» Ecco, in questo caso Francesco ha preso in mano totalmente la cosa e ne ha voluto fare ‘qualcos’altro’, ma l’ha fatto talmente bene che non gli potevo dire nulla. Poi forse Giuliano Sangiorgi, che ha scelto “Aquila”, un brano che ho scritto con Lucio, e ne ha fatto una sua versione al pianoforte; anche perché erano gli ultimi giorni, stavamo già missando il disco e lui, che aveva appena finito la sua tournée, mi ha chiamato chiedendomi se era ancora in tempo e mi ha mandato questa versione fantastica. Ma il resto delle canzoni sono state arrangiate da Maurizio Mariani, che è un bassista di Roma, da Mattia Del Forno, che ha prodotto il disco, e da me. Alla fine abbiamo creato questo gruppo di lavoro, io con i miei amori musicali e loro con la loro giovinezza.
Avete scelto e arrangiato i brani per i diversi interpreti?
No, in generale mi proponevano già dei titoli, oppure io mandavo loro un piccolo parco di canzoni e loro sceglievano, magari se non sapevano cosa scegliere perché non conoscevano così bene il repertorio. Anche se per esempio ho scoperto, quando ho chiamato Emma Marrone, che lei le conosceva tutte per cui mi ha detto: «Dammi quella che vuoi!» Molti mi avevano chiesto “Non abbiam bisogno di parole”, ma io avevo questo duetto con Pino Daniele che avevo registrato durante la tournée del 2002 con Francesco e Fiorella Mannoia, così ho preferito usare quella registrazione. Così come ho incluso il duetto con Lucio di “Chissà se lo sai”. Ho voluto omaggiarli con queste due canzoni. Però, in linea di massima, gli interpreti hanno scelto alla fine cosa volevano cantare.
Quindi loro sceglievano le canzoni e voi preparavate gli arrangiamenti?
Sì, avevamo bisogno della tonalità, per cui chiaramente abbiamo dovuto prima sapere chi le avrebbe cantate.
Anche Mangoni ha fatto un buon lavoro.
Sì, assolutamente straordinario, lui è fantastico.
Interessante anche lo stravolgimento de “Il gigante e la bambina” da parte di Jovanotti.
Ecco, lì è stato lui che l’ha voluta fare. Anzi, lui aveva chiesto “Una città per cantare”, ma gli ho risposto che avevo l’idea di farla tutti insieme. Così una sera gli ho mandato a New York una versione del “Gigante e la bambina” suonata con le percussioni, che a lui è piaciuta tantissimo, tanto che ha deciso di fare proprio quel pezzo. All’inizio dovevamo registrarla a New York, poi lui era impegnato con altre cose e doveva andare a Los Angeles. Lui lavora con il fonico Michele Canova, per cui alla fine l’abbiamo fatta qui a Milano nello studio Kaneepa di Canova. Io accompagnavo con la chitarra, mentre chi suonava l’altra chitarra era il chitarrista di Lorenzo. Lui è stato molto contento così, trovo che l’abbia cantata benissimo e che si sia sentito liberissimo nell’interpretazione. Alla fine è venuto fuori proprio lui, con delle invenzioni, con il fischio finale, perché lui è uno che ha una forza fantastica nelle melodie, ha messo dentro delle belle cose e in più l’ha cantata proprio bene.
Oltretutto è un brano dove emerge un testo di un’attualità disarmante.
Una tragicità pazzesca, ma nello stesso tempo una grande poesia. Una canzone che all’epoca fu censurata, ma che noi adesso abbiamo eseguito nella sua versione originale.
Rimaniamo nel campo dei ‘misteri’: quando ero ragazzino, mio padre portò un 45 giri con un brano che era la traduzione di una canzone di Cat Stevens…
“Father and Son”!
Chi la cantava ovviamente eri tu, ma nelle tue varie biografie non se ne fa mai cenno.
Il brano in italiano si chiamava “Figlio mio, padre mio”, ora ti racconto come ho conosciuto Cat Stevens: ero a Bari, alla Caravella dei successi, una delle tante manifestazioni canore di allora, alla quale partecipai appunto con “Figlio mio, padre mio” vincendo la ‘Caravella’; e a un certo punto mi dissero: «C’è un ospite inglese!» Chiesi chi fosse, ma nessuno ne conosceva il nome, mi dicevano solo che era un ragazzo con i capelli lunghi, un po’ riccio. Allora guardai nel camerino aperto e vidi Cat Stevens in persona: lo volli assolutamente conoscere, lui dal camerino aveva sentito la canzone e mi fece i complimenti. Io impazzii, perché avevo preso tantissimo da lui, sicuramente il mio secondo riferimento.
Ma perché questa cosa non viene citata nelle tue biografie? Mi sembra abbastanza importante.
Sai cosa, ce ne sono altre che sono state dimenticate, ma non per volere mio. Il fatto è che forse dovrei stare più attento io stesso, quando si scrivono le biografie. Certe cose magari si omettono per mancanza di voglia di star lì a scartabellare, di andare a vedere cosa avvenne realmente…
Ritorniamo alla musica attuale: parlavi del fastidio che provi nell’ascoltare per radio questa crescente ‘omologazione’.
La radio fa il suo lavoro, ognuno fa il proprio lavoro. Non è proprio una crisi artistica, ma vedo che c’è un certo modo di trattare i suoni, la voglia di utilizzare una qualità sonora uguale per tutti. Poi, chiaramente, la bella canzone fa la differenza anche se ha lo stesso suono delle altre canzoni, sopravvive perché è una canzone speciale, ha un testo molto bello, l’artista che la canta è bravissimo e il ‘cazzotto’ arriva lo stessoerò sento che c’è poca creatività dal punto di vista sonoro.
Ti racconto una cosa strana. Io ho lavorato per sei anni con Greg Walsh, che è un produttore inglese, e una volta che lui si trovava a Copenaghen per produrre un disco di un artista inglese mi chiamò e mi disse: «Ron, se vuoi fare uno studio, questo è lo studio perfetto per te, perché suona da bestia, è una roba micidiale. Se ascolti le batterie, le chitarre acustiche, diventi pazzo». Allora partii immediatamente per Copenaghen, andai allo studio, ascoltai, provai a registrare la mia chitarra, la mia voce, mi fecero sentire delle cose e lo studio suonava in un modo eccezionale. Poi sentii quelle registrazioni anche con altri ascolti e il suono era sempre quello, non potevi sbagliarti. Così venne l’architetto a casa mia e fece il gemello di quello studio. Per cui ora sono orgoglioso di avere questo studio, perché so di non sbagliare mai e – anche quando voglio fare delle sonorità un po’ particolari, fare degli esperimenti sonori – so che l’ascolto di quella ‘cassa armonica’ che è la regia oppure della sala di ripresa non mi tradirà mai. Ciò nonostante, pur avendo questo studio meraviglioso – e dico solo ‘meraviglioso’ perché non è che ho fatto uno studio megagalattico, dove le luci si accendono appena passi, ma è il gemello esatto di quello studio in Danimarca – devo dirti che invece Way Out, quel disco di cui parlavo e che è tutto acustico e suonato live, l’ho fatto dentro casa! Mi sono fatto anche un po’ del male: ma come, hai una sala di registrazione bellissima, che è costata un sacco di soldi, e usi casa tua? Invece l’ho fatto proprio in casa perché avevo bisogno di un sapore ambientale diverso. Questo mio disco Way Out – che mi piacerebbe tu avessi, e se non riesci a trovarlo fammelo sapere che te lo mando – è un disco particolare. E così, tutti stretti nel mio salone col suo grande camino, con la violoncellista che doveva suonare in bagno, io spostato da una parte per non far rientrare troppo gli altri strumenti nel mio microfono della voce, è uscito fuori un disco con una sonorità eccezionale. Sinceramente ti invito ad ascoltarlo, se mi dai il tuo indirizzo te lo faccio avere. Ci tengo proprio, perché uno come te lo apprezza sicuramente. Su quel disco le chitarre ‘si mangiano con il pane’.
Condivido le tue scelte sonore coraggiose, in contrasto con un mercato dove ti ammazzi per fare dei bei suoni, poi te li sviliscono con il mastering.
Questa è una cosa che non ho mai capito! È vero che tutti noi cerchiamo di mandare le canzoni a uno studio mastering di New York o di Los Angeles, però io ho fatto dei tentativi e ho avuto anche delle grandi delusioni, non solo soddisfazioni. Questo disco invece l’ho fatto masterizzare alla Fonoprint di Bologna da Maurizio Biancani. Lui me lo ricordavo come uno veramente rispettosissimo dei suoni, che lui curava già come ingegnere del suono. E allo stesso modo lui si muove anche quando fa il mastering: non cerca mai di stupire, anche con il livello. Perché alla fine quello che cerchi, se hai fatto un buon lavoro in studio di registrazione, è di avere un livello buono, che quando vai in radio non scenda di 4 dB rispetto al brano precedente. E lui, devo dire, con poco è riuscito a far suonare Way Out molto bene; anzi, ha dato una svolta in più al disco, gli ha dato ancora più freschezza.
Tu segui tutto il processo della lavorazione di un disco?
Assolutamente, non mi affido a nessuno, seguo tutto personalmente dall’inizio alla fine. Non manco mai, neanche mezzo minuto. Poi è vero, e di quelli come me ce ne sono tanti, faccio fatica a tagliare il cordone ombelicale e lasciarmi alle spalle un disco fatto e finito. ‘Stampare il disco’, per me questa frase è difficilissima da accettare, perché ogni volta che lo ascolto ci farei ancora delle cose, sono un ‘perfettino’. Magari certe cose le sento solo io e devo essere dissuaso dagli altri, che mi dicono che invece non si notano. Probabilmente hanno anche ragione loro, sono un pazzo fissato sulla perfezione!
Il click in studio lo usi, oppure vai a interpretazione?
Sì, per certe cose sì. Per canzoni come “Anima”, registrata con Malika Ayane, o come quella con Jovanotti e credo anche quella di Francesco, non l’ho chiesto. Ma sicuramente, in casi come questi, si sente che le canzoni sono molto libere per come sono state concepite. Diciamo che per i pezzi acustici non lo uso mai. Però, se hai un brano che tira, allora sì. Certo, anche lì sarebbe bello suonare liberamente, ma a volte sei costretto a usare un riferimento elettronico, magari anche perché non hai molto tempo a disposizione. Anche questo c’è da considerare: io per esempio ho fatto questo disco doppio in quattro mesi, compresi cori, missaggi e mastering, per cui abbiamo fatto delle belle corse e in quel caso il click ci ha aiutato.
L’intro di “Una città per cantare”? Il brano ha cambiato aspetto, il ritmo di quell’arpeggio era differente.
Devo dire che quando conobbi Jackson Browne, abbiamo fatto un duetto in uno spettacolo televisivo italiano che si chiamava Al centro della musica, che tra l’altro è il titolo di una mia canzone. C’era lui come ospite e chiaramente abbiamo pensato di cantare insieme “Una città per cantare”: lui la cantava in inglese e io in italiano. Quando cominciai io, lui si sporse immediatamente con la testa per guardare le mie dita. Allora io l’ho guardato e gli ho detto: «Ora sono cavoli tuoi, io la faccio così!» Poi venne una settimana da me, perché decidemmo di registrarla per i miei trent’anni di attività musicale, per cui ne abbiamo fatto una versione in studio con tutta la band [cfr. l’album di Ron, ’70/’00, CGD, 2000] e anche una versione unplugged noi due da soli, nella piazza di Vigevano alle sette di mattina: non c’era praticamente nessuno ed è stata una delle cose più magiche che abbia mai potuto fare. Lui se ne andò via da Garlasco veramente felice. E abbiamo parlato tanto di chitarre, lui è un gibsoniano al cento per cento.
Jackson Browne è uno di quelli che ‘la prossima chitarra è l’ultima’…
Ma anche io sono così, io sono pazzo per le chitarre.
Non sei il solo.
Poi mi trovo ad averne troppe, a non usarne mai alcune. Adesso credo di arrivare piano piano a una verità, che forse è solo mia, ma credo che sia solo una la chitarra che uno dovrebbe avere…
Lo so, ma è dura…
La chitarra è un insieme di cose…
È anche un momento di passione, di innamoramento: non importa come suona lo strumento, ma la devi avere…
Ah, sì, funziona esattamente così! Se andiamo a sentire Ed Sheeran, le prime cose sue fatte anche dal vivo, aveva questa chitarrina… Poi adesso è sponsorizzato dalla Martin che gli ha fatto la Ed Sheeran Signature, però allora non era così…
La Martin Ed Sheeran assomiglia un po’ come disegno alla Martin modello Sting…
Sì, però quello di Sting è un altro strumento. Su quella di Ed sono riusciti a mantenere l’aspetto di una chitarra giocattolo. Però anche lì il tocco fa tanto: lui è uno che la massacra, la strappa, è uno che mi piace tanto.
Allora dovresti sentire Jon Gomm, al quale abbiamo dedicato la copertina di febbraio.
Questo della copertina? Ma questa chitarra è vecchia o l’ha ridotta lui così?
Guardati i suoi video e lo capisci… è uno che ha un bel tiro, una grande grinta sia con la voce che con la chitarra.
È americano o inglese?
Inglese.
Ma fa i dischi e canta? Questa sera me lo vado a cercare su Internet!
Ma tu sulla chitarra le accordature aperte le usi mai?
No, non le uso mai perché non le so metter giù, faccio dei danni, devo cercarmi altre posizioni e io sono un pigro. Posso al massimo abbassare il Mi a Re, però di più non vado a fare.
Hai mai provato le chitarre baritono?
Sì, un mio amico chitarrista, Andrea Pistilli, ne ha una bellissima. Lui suona benissimo e ne ha saputo fare buon uso, ha suonato molto con me la baritona, una chitarra eccezionale. È un po’ un mio sogno anche questa, perché io cerco sempre delle tonalità più basse di come è la chitarra normale: per me la chitarra ideale dovrebbe essere accordata un tono sotto, il basso non dovrebbe essere un Mi ma un Re.
Chitarre di liuteria o chitarre ‘standard’?
Mi capita magari di andare a qualche festival chitarristico e di avere l’occasione di provare trenta chitarre di liuteria, ma dovrei avere la possibilità di star lì otto giorni per farmi fare la mia chitarra: tutto questo tempo non ce l’ho mai e quindi vado sempre con l’intenzione di comprarmi qualcosa, ma non lo faccio. Del resto sono sempre chitarre che hanno un loro costo, non sono mai chitarre da poco, giustamente, sono fatte una per una, e perciò meritano tempo e attenzione nell’acquisto, che non ho. D’altra parte posso anche rimanere stupito da una chitarra che non è di liuteria, come è stato per esempio con la Aria, che quando non la suono amplificata ha un suono chiaramente sferragliante, anche se non piccolo perché poi uso un basso .054; e spesso monto le corde .013, per cui riesco a ottenere una sonorità anche bella potente e scopro che ha una sonorità diversa da tutte le altre.
Il tuo successo come cantautore è successivo al tuo successo come musicista: nel tour Banana Republic sei stato chiamato a curare gli arrangiamenti insieme a Dalla e De Gregori e ti mantieni un po’ dietro rispetto a loro due. Quindi all’inizio emerge soprattutto la tua sensibilità musicale negli arrangiamenti, mentre successivamente esplode la tua vena cantautorale…
Credo che la piacevolezza di essere alle spalle di qualcuno, di suonare per lui, sia una lezione di attenzione agli altri. Quando sei protagonista e ti suoni la tua chitarra, tendi sempre a farla sentire più forte di tutti. Invece durante Banana Republic la mia chitarra non l’alzavo più di tanto, proprio perché sapevo cosa dovevo fare e come dovevo farlo. Ecco, forse lì ero più vicino a James Taylor: anche se la mia chitarra non la sentivo forte, mantenevo comunque un tocco. Questa cosa mi riusciva bene perché in quel momento stavo donando qualcosa agli altri.
Nel chiudere l’intervista volevo farti i complimenti per la qualità artistica de La forza di dire sì, ma anche per il fine perseguito, visto che il disco è un progetto a sostegno della AISLA per la ricerca sulla Sclerosi Laterale Amiotrofica. E il progetto è stato portato avanti con la professionalità di sempre…
Io non sopporterei mai di sentire qualcosa di mio di cui non sono contento. Ogni volta che parto con un progetto mi prendo e mi chiedo tutto il tempo necessario, che poi per me non è mai abbastanza, come ti dicevo prima. Questo è stato un disco molto pensato, con un amore verso chi ha detto sì, che sono questi miei colleghi che si sono affidati a me e si sono fidati di me, del mio modo di essere e di quello che sono stato nella musica in tutti questi anni. Sai, non ho mai venduto milioni di dischi. Però probabilmente, anche quando potevi non accorgertene, le mie cose uscivano e la gente ha iniziato ad apprezzarmi.
Questo è il motivo per cui io dico che questo lavoro della musica è una continua scoperta.
Sai, io ho avuto anche la fortuna, quando non scrivevo ancora testi, di aver seguito Lucio nel momento in cui ha iniziato a scriverli. In Come è profondo il mare del 1977, dove io sono presente, lui incominciò a scrivere i testi e fu una grande rivoluzione. Già il testo della canzone “Come è profondo il mare”, che è proprio il primo testo che Lucio ha scritto, è una roba da ‘alieno’ secondo me. E sono stato molto fortunato perché quando lui si è messo a scrivere i testi per le mie canzoni, aveva trovato la sua vena e si era reso conto della qualità di quello che riusciva a buttar giù. Per cui io ho goduto di tutto quel talento e della magia del momento: le mie canzoni scritte con lui hanno dei testi di una bellezza strepitosa. Il testo di “Cosa sarà”, che abbiamo scritto insieme, musica mia e testo suo, è una cosa che rimane per forza. Pensa che era una canzone che serviva per fare il retro di “Ma come fanno i marinai”, e invece poi si cantò negli stadi.
Bello questo ricordo del lato B, quello che sempre si andava a scoprire: sembrava che servisse solo di appoggio al brano famoso, e spesso invece nascondeva delle sorprese.
Sicuramente era la cosa più interessante, il pezzo meno semplice, quello dove osavi di più e perciò lo dovevi scoprire.
Visto che parlavi del momento magico di Lucio, che momento stiamo vivendo ora nel mondo dei cantautori?
A parte quelli che hanno già una carriera alle spalle, come Niccolò Fabi per esempio, che a me piace molto, faccio molta fatica a sentire i ‘nuovi talenti’, perché adesso si insegna soprattutto ad apparire, e questo è il grande problema. Ci sono ragazzi molto giovani che diventano immediatamente famosi, perché vanno ai talent e cantano canzoni già conosciute, ma non hanno una personalità vera e propria. Magari si può dire: «Guarda che voce che ha, è anche un bel ragazzo, lo aspetto fuori cosi mi faccio fare l’autografo». Alcuni ragazzi non possono camminare per strada per questo motivo. Ma purtroppo non scrivono, questo è il problema. Io, quando vedo una ragazza che si presenta con una chitarra in mano sono felice: vuol dire che ha cercato qualcosa dentro di lei, ha cercato la musica, non ha voluto solamente dimostrare di saper cantare. Ho una scuola con due sedi, una a Garlasco e l’altra a Vigevano, che si chiama Una citta per cantare, è una scuola di musica, ma anche di canto, di musical. C’è una rosa di ragazzi da far crescere, e tutti stanno scrivendo dei brani. E anche se si sono messi a vomitare sulle prime parole che hanno scritto, perché non gli piacevano, poi hanno capito che le cose che tiravano fuori potevano avere un bel significato, un loro linguaggio particolare. Ho come allieva una ragazzina eccezionale, che scrive le sue canzoni e arriva da me sapendo fare quattro accordi. Allora le dico: «Se non impari a suonare la chitarra te la spacco in testa, devi imparare tutti gli accordi, non è possibile che una brava come te non sappia fare almeno dieci accordi!» E invece no, l’accordo di Sol lo prende solamente con il mignolo e il basso non lo fa, però è una che quando apre bocca ti stende. Così, al momento la perdono, poi ritorno sui miei passi e le dico: «Vai a scuola a imparare!» Però ha un coraggio pazzesco.
Hai mai composto un brano per sola chitarra?
No, col piano ho fatto qualcosa, ma con la chitarra ho pudore. Sarà che vedo questi ‘mostri’, che fanno dei ‘circhi’ con quelle dita che non le vedi! Sono molto invidioso.
Chi ti piace particolarmente?
Forse sono rimasto un po’ indietro, ma credo che Pat Metheny e Van Halen rimangano due grandi riferimenti.
Reno Brandoni